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VITA PRIVATA – L’intimità come indagine

VITA PRIVATA – L’intimità come indagine

C’è una soglia sottile tra ciò che siamo e ciò che gli altri vedono di noi. Vita Privata, il nuovo film di Rebecca Zlotowski, attraversa proprio quella linea, trasformandola in un terreno di indagine, colpa e desiderio.
Con Jodie Foster nel ruolo di Lilian Steiner, una rinomata psichiatra sconvolta dalla morte misteriosa di una sua paziente, Zlotowski firma la sua opera più matura, lucida e ipnotica: un film che usa la grammatica del thriller per raccontare un’anima in frantumi.

Lilian non è la classica “donna complessa” del cinema contemporaneo, ma il suo opposto: una donna troppo razionale, impeccabile fino all’eccesso, che nasconde dietro la compostezza una voragine di dubbi. Quando la sua paziente muore in circostanze sospette, la psichiatra inizia un’indagine che, più che poliziesca, è interiore: una discesa nell’inconscio, dove realtà e sogno si contaminano, e dove il senso di colpa diventa lente di ingrandimento sull’identità stessa.

Zlotowski – che già con Grand Central e An Easy Girl aveva esplorato le tensioni tra libertà e controllo – qui costruisce un film stratificato, capace di fondere psicoanalisi e suspense, intelligenza e ironia, in un linguaggio visivo di rara finezza.
Le sequenze generate con intelligenza artificiale, inserite come inserti onirici, non sono un esercizio estetico ma una finestra sull’inconscio: immagini che sembrano provenire da sogni rimossi, come se il film stesso avesse un suo inconscio da decifrare.

Al fianco della Foster – magnetica, misurata, di una sensibilità quasi tattile – troviamo Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric e Luàna Bajrami: un cast che riunisce due continenti e due scuole di recitazione. L’alchimia tra Auteuil e Foster, in particolare, riscrive la grammatica del “rimatrimonio” cinematografico, fondendo malinconia e leggerezza con un’ironia tutta francese.

Vita Privata” è un titolo che vibra di doppi sensi: vita intima, ma anche vita privata della vita. È un film che parla di perdita, ma anche del desiderio segreto di perdersi per ritrovarsi.
Come suggerisce la regista, è una storia che smonta il mito della donna forte per restituirci qualcosa di più vero: la fragilità lucida di chi, pur sapendo tutto degli altri, deve ancora imparare a conoscersi.

Il risultato è un film elegante e inquieto, dove la parola diventa musica e il silenzio confessione.
Un viaggio tra il visibile e il rimosso, in cui lo spettatore non assiste soltanto all’indagine di una donna, ma viene chiamato a interrogare la propria.

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