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Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim. Un’animazione d’altri tempi coglie l’anima di Tolkien

Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim. Un’animazione d’altri tempi coglie l’anima di Tolkien

Héra è selvaggia, coraggiosa, libera. È una principessa, ma non chiamatela e non trattatela come tale. Héra è la protagonista de Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim, un film d’animazione che riporta il pubblico alla scoperta dell’epico mondo portato in vita nella trilogia de Il Signore degli Anelli basata sui celebri libri di J.R.R. Tolkien. È un’operazione interessante. Perché ha come protagonista un’eroina femminile, una cosa piuttosto rara nel mondo di Tolkien. E perché è un film d’animazione, o meglio un anime, disegnato nello stile dei cartoni animati giapponesi: è diretto del pluripremiato regista Kenji Kamiyama, che ha diretto la serie TV Blade Runner: Black Lotus e Ghost in the Shell: Stand Alone Complex. È un esperimento riuscito. Probabilmente è il miglior racconto ambientato nel mondo di Tolkien dai tempi della prima trilogia di Peter Jackson, quella tratta da Il Signore degli Anelli.

Ambientato 183 anni prima degli eventi della trilogia originale, Il Signore degli Anelli: La Guerra dei Rohirrim racconta il destino della Casata di Helm Hammerhand, il leggendario re di Rohan. Un attacco a sorpresa da parte di Wulf, un astuto e spietato signore del Dunlending in cerca di vendetta per la morte di suo padre, costringe Helm e il suo popolo a organizzare un’audace ultima resistenza nell’antica roccaforte di Hornburg – una possente fortezza in seguito conosciuta come il Fosso di Helm. Trovandosi in una situazione sempre più disperata, Héra, la figlia di Helm, deve trovare il coraggio di guidare la resistenza contro un nemico mortale intenzionato alla loro totale distruzione.

È davvero inedito il modo in cui è raccontata questa nuova storia ambientata nel mondo di Tolkien. È l’unione di un racconto tipicamente europeo – sono quelli i paesaggi della Terra di Mezzo e i tratti dei suoi abitanti – con uno stile di disegno orientale, quelli tipici dell’animazione giapponese. Gli attori che doppiano i personaggi – abbiamo visto il film in lingua originale – hanno delle voci bellissime che recitano lo script come se fosse Shakespeare. Così il film assume quel tono di solennità che è proprio del mondo di Tolkien. Il risultato di tanta contaminazione è davvero ottimo. È Peter Jackson che incontra Miyazaki che incontra Laurence Olivier.

È il disegno stesso, prima di tutto, a colpire, ad avere un fascino particolare. È come se i disegni fossero su due livelli. Ci sono una serie di sfondi fissi che sono un po’ come delle quinte teatrali: sono più definiti, non fotorealistici ma quasi, che sembrano disegnati al computer, e hanno una loro profondità. In primo piano, staccate dagli sfondi, ci sono le figure, i personaggi. Sono disegnati con un tratto più essenziale, più ingenuo. E sono volutamente piatte, orgogliosamente bidimensionali. È il tratto tipico di certi disegni giapponesi, di quello che chiamavamo cartone animato. È un disegno che ci è familiare, è proprio quello dei cartoni che guardavamo da bambini. Il dialogo tra questi due stili di animazione, sfondi e primo piano, definizione e semplicità, funziona e affascina. È come quando, da bambini, giocavamo con delle figure di carta ritagliate da libri o giornali, e le muovevamo in uno spazio fatto apposta, che poteva essere ancora di cartone o di legno.

I maestri giapponesi si confermano, proprio come nei progetti di quei tempi, a disegnare storie, personaggi e luoghi di stampo europeo: pensiamo a Lady Oscar, Heidi, Lupin. Siamo sicuri che i disegni di quei personaggi li avete ben presenti: quei visi ovali e appuntiti, quei nasi e quelle bocche così piccoli. E quegli occhi enormi, con quei classici lucciconi, dei cerchi bianchi nelle pupille che ci danno l’impressione di occhi lucidi, liquidi, commossi.

Ma se si tratta di un film avvincente lo si deve a molte cose, prima su tutte la sceneggiatura, che appassiona come quella dei film della trilogia del Signore degli Anelli. È bellissima l’idea di Helm Hammerhand, che, umano o no, vivo o defunto, spaventa ancora gli avversari come El Cid Campeador della leggenda della reconquista spagnola (e del film del 1961 con Charlton Heston). E lo si deve a un racconto ritmato, teso, pieno di sorprese, che scorre fluido per le oltre due ore di film. Il nuovo film de Il Signore degli Anelli ci piace anche per tutti quei riferimenti all’opera originale. Si torna così a Rohan, ma si parla anche di Mordor, del Monte Fato. Ci sono gli orchi e gli elfi.

Un’animazione così antica, classica, che quasi non siamo abituati a vedere più, un’animazione che potrebbe definire tradizionale e vintage, sembra perfetta per raccontare il mondo di Tolkien. Un mondo che, se si esclude il film animato di Ralph Bakshi del 1978, è sempre stato appannaggio del kolossal cinematografico, e sotto l’egida di Peter Jackson, e poi della serie tv. L’animazione, invece, è una tecnica che si addice molto a questa saga. Questo tipo di animazione evoca proprio il disegno su carta, un lavoro d’altri tempi. Ed è proprio l’ideale per cogliere l’anima di una materia, quella tolkeniana, che a sua volta sa di antico, e che a nostra volta abbiamo sempre trovato su carta, l’amata carta dei libri.

di Maurizio Ermisino

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