L’11, il 12 e il 13 novembre David Byrne tornerà a indossare quel suo famoso Big Suit, quell’abito extralarge talmente grande che sembra inghiottirlo. L’occasione di rivedere Byrne e i suoi Talking Heads è Stop Making Sense. 40 Anniversary Experience, il progetto speciale che celebra l’omonimo film dei Talking Heads a 40 anni dall’uscita. Stop Making Sense è una pietra miliare dei documentari rock realizzata dal regista Premio Oscar Jonathan Demme, che arriverà nei cinema solo in questi tre giorni di novembre in 4K e audio Dolby Atmos 7.1. Quello che è stato definito il più grande film concerto di tutti i tempi è stato presentato lo scorso anno al Toronto International Film Festival e quest’anno in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma e nei club di alcune città con lo Stop Making Sense Tour Party.
Che non sia un concerto come tutti gli altri, che non sia un film come tutti gli altri, lo si capisce sin dalle prime sequenze. La macchina da presa di Jonathan Demme inquadra i piedi di David Byrne mentre sale le scale che lo portano al palco. È da solo, con una chitarra acustica e un boombox, uno di quegli stereo portatili degli anni Ottanta. Siamo nel 1983, e inizia così il concerto che diventerà il film storico del 1984. Da solo David Byrne attacca un classico dei Talking Heads, Psycho Killer.
Ma di diverso dal solito non c’è solo l’inizio. C’è anche il fatto che dietro a David Byrne c’è un palco spoglio, nudo, tutto ancora da allestire. È un work in progress. Nel frattempo, canzone dopo canzone, su quel palco arrivano gli altri membri dei Talking Heads: Tina Weymouth, al basso, Chris Frantz, alla batteria, e Jerry Harrison, che suonerà le tastiere e la chitarra. Tutto viene fatto a vista, davanti al pubblico, tutto entra nel film. La strumentazione è portata in scena mentre il concerto è in corso: il palco e la band, che annovera anche altri membri, vengono letteralmente costruiti davanti al pubblico. Entrano due coriste, il percussionista, e il palco ha finalmente uno sfondo nero, come si confà a ogni spettacolo. Quando arriva Burning Down The House, un altro dei loro grandi classici, sul palco ci sono nove musicisti.
In mezzo a questo show si muove un frontman che è anche un grande attore. È David Byrne. Il suo volto allampanato è quello di uno che sembra essere lì per caso, uno che ha la testa altrove. È solo un’espressione, perché Byrne è pienamente al centro della situazione: cantante, autore, direttore d’orchestra, anima della band. E anche grande interprete, capace di continue gag. Come quando, durante This Must Be The Place, gioca con una lampada, una piantana. O come quando, nei bis, si presenta con un abito particolare.
È un abito oversize, noto come il Big Suit, che è stato creato apposta dalla stilista Gail Blacker. L’idea di Byrne per quel grande abito venne dal teatro giapponese. Durante gli anni Ottanta, Byrne aveva infatti visitato il Giappone e ne aveva scoperto il teatro. Aveva amato molto il noh e il kabuki, degli stili che presentano costumi grandi e squadrati. Byrne decise di prendere questa idea e l’aveva tradotta in uno stile più contemporaneo, disegnando un abito grigio, da businessman, squadrato, che fu poi realizzato da Gail Blacker, la costumista del tour. Nacque così un completo dalle proporzioni enormi: era sostenuto da un telaio sulle spalle di Byrne, con la maggior parte del tessuto pendeva liberamente intorno a lui, in grado di tremare ad ogni movimento del cantante. “Volevo che la mia testa apparisse più piccola e il modo più semplice per farlo era ingrandire il mio corpo” aveva spiegato Byrne, che in quelle sequenze sembra diventare un cartone animato. Quasi quarant’anni dopo quell’abito lo indosserà Nicolas Cage nel film Dream Scenario.
Anche Tina Weymouth, oltre che una grande musicista, è a suo modo un’attrice. Sembra la ragazza bionda di tanti film americani ambientati nei college, sorride e ci riempie di sguardi dolci. E il suo basso è l’anima del suono dei Talking Heads, l’elemento che porta il groove. Quello di Stop Making Sense è un concerto senza grandi effetti speciali, ma con un’idea forte per ogni canzone. È uno show iconico. Si chiude con Take Me To The River, un grande pezzo soul di Al Green, a cui i Talking Heads danno il loro tocco funk e new wave.
Ancora oggi, 40 anni dopo, Stop Making Sense è considerato uno dei grandi film concerto della storia del rock. Nel momento in cui fu girato, infatti, era molto innovativo, pieno di accorgimenti che cambiavano lo stile del classico film concerto. Ad esempio. il fatto che ci sono pochissime inquadrature del pubblico e gli applausi si sentono molto poco fino alla fine del concerto, durante l’esecuzione di Crosseyed and Painless. Era una scelta precisa per fare in modo che lo spettatore non fosse influenzato dalla reazione del pubblico e potesse farsi una sua opinione della performance. È la stessa idea che ebbe Martin Scorsese per L’ultimo valzer (1978) e Shine a Light (2008).
Ma si decise anche nessuna luce colorata illuminasse la band sul palco, altra scelta controcorrente rispetto allo stile di quegli anni, e praticamente di qualsiasi concerto. Così ogni canzone ha un metodo di illuminazione originale, tra cui la lampada di This Must Be the Place (Naive Melody). Erano gli anni dei grandi concerti pop e soprattutto dei videoclip in stile MTV, dal montaggio veloce e serrato: Stop Making Sense invece è fatto da inquadrature lunghe e fisse. In questo modo possiamo esaminare con attenzione l’interazione dei musicisti sul palco. E non c’è neanche primi piani sui musicisti che stanno eseguendo un assolo al proprio strumento, e tutti vengono ripresi a figura intera quasi sempre. Stop Making Sense è un’esperienza. Per questo, in questi tre giorni, dovete andare al cinema.
di Maurizio Ermisino
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