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Il robot selvaggio: Nessuno è programmato per essere un genitore

Il robot selvaggio: Nessuno è programmato per essere un genitore

“Io non sono programmata per essere una madre”. “Nessuno lo è”. È da questo dialogo, che arriva in una delle prime battute de Il robot selvaggio (Wild Robot), il nuovo, bellissimo, film d’animazione della Dreamworks, che si capisce che sarà qualcosa di diverso dal solito. Tratto dal romanzo illustrato di Peter Brown, Il robot selvaggio, in uscita al cinema il 10 ottobre, è un film unico per vari motivi. Prima di tutto per i temi trattati, e per come li tratta. Affronta al contempo temi forti come la genitorialità, e quel sentirsi inadeguati al ruolo, e l’Intelligenza Artificiale, per farci capire davvero come funziona. E per la tecnica, che mescola la tecnologia più moderna con l’animazione tradizionale, con un gusto retrò e l’emotività di quei “cartoni” d’altri tempi. Il robot selvaggio è uno dei film più belli dell’anno, e non solo per quanto riguarda l’animazione. È un film commovente e allo stesso tempo incredibilmente lucido. Un film per tutti, grandi e bambini.

Al centro della storia c’è ROZZUM 7134, un robot che impareremo subito a chiamare Roz e ad amare. È un robot nato per l’assistenza clienti e, come tale, all’inizio si comporta. Una tempesta fa però naufragare l’astronave cargo che stava portando il suo carico, e così Roz si trova su un pianeta selvaggio, non abitato dall’uomo ma da animali di ogni tipo. Gli incontri che fa Roz sono tanti, funambolici e sorprendenti. Ma uno di questi le cambia la vita. È quello con un piccolo, dolcissimo anatroccolo che ha perso i genitori. Le anatre sono così: la prima persona che vedono appena nati per loro è la madre. E così, non appena quell’ovetto si schiude, lui vede Roz. E si legherà indissolubilmente a lei. Roz lo chiamerà Beccolustro.

E così Roz, all’improvviso, si scopre mamma. Diventa un genitore senza saperlo fare, ma impara in fretta. Un primo livello di lettura del film è proprio questa, il senso della genitorialità. Roz non è programmata per essere un genitore, ma nessuno di noi lo è. Non esiste un libretto di istruzioni, non esiste un allenamento. A fare il genitore lo impari strada facendo, mettendoti in gioco, sbagliando. Ma, soprattutto, trovando in te l’amore. Il robot selvaggio ci spiega anche qual è il compito del genitore. È aiutare i propri figli a imparare a volare, qualunque tipo di volo sia, e poi lasciare che volino da soli, per quanto possa essere doloroso lasciarli andare. Essere genitore è anche dire ai figli “vola a modo tuo, non a modo loro”.

Una storia che potremmo aver visto più volte. Se non fosse che a provare questo amore, questa empatia, questa cura per un figlio, diverso da lei, è un’Intelligenza Artificiale. Di film su questo tema ne abbiamo visti tanti, in cui le AI erano per lo più minacciose. A volte sono state empatiche e capaci di sentimenti. Questo film però sembra spiegarci molto bene il machine learning, la capacità delle AI di imparare, evolversi, aggiornarsi. I passaggi del film, in questo senso, sono molto interessanti. Ci sono anche i possibili problemi legati alle AI, come una certa rigidità quando si tratta di perseguire un obiettivo fino alla fine.

Tutto questo è reso in un lavoro funambolico, spumeggiante, fiammeggiante. Il robot selvaggio è un film che vive in un continuo movimento, con decine di “creature” che sono digitali ma sembrano vive, in un perfetto equilibrio tra gag slapstick, più divertenti, e sequenze epiche, più intense e solenni. È probabilmente il miglior anello di congiunzione possibile tra i cari, vecchi film d’animazione con gli animali, e la nuova animazione nata da quando Pixar e Dreamworks hanno cambiato il campo di gioco.

Se Roz deve qualcosa ad altri robot come il Baymax di Super Hero 6 e il BB-8 dell’ultima trilogia di Star Wars, è anche vero che ha un ottimo character design, così come lo hanno tutti i personaggi, semplici eppure di grande impatto. E se la storia, all’inizio, sembra essere vicina a quella di A spasso con Willy (ma anche a quella del classico Robinson Crusoe), Il robot selvaggio è un film a suo modo originalissimo per la forza del racconto e per il suo tono. Forse il suo parente più diretto è Steven Spielberg, con il suo E.T., omaggiato in due sequenze chiave (quelle della Luna e quella dell’arrivo della navicella). Lo sguardo incantato e sentimentale, il senso dell’amore misto al senso di pericolo, il modo in cui racconta un certo senso di spaesamento e la scissione tra restare e andare sono gli stessi. Come in certi film di Spielberg, Il robot selvaggio mette in scena una famiglia inconsueta: qui i genitori putativi del piccolo anatroccolo sono un robot e una volpe i cui istinti potrebbero essere un pericolo proprio per il tenero piccolo Beccolustro. La volpe Fink e l’oca Longneck, che aiuterà Beccolustro nel suo volo, sono tra i personaggi che amerete di più.

Era una famiglia insolita anche quella di Lilo & Stitch, se ricordate. E il papà di entrambi i film è proprio lui, Chris Sanders, regista in grado di muoversi tra l’animazione classica e le nuove tecnologie, e capace di portare in scena ancora quel calore e quel sentimento che avevano certi vecchi film “a cartoni animati”, come li chiamavamo. Il messaggio di Lilo & Stitch era proprio il significato profondo di famiglia, dove “nessuno viene abbandonato o dimenticato”. Il robot selvaggio, in fondo, vuole dirci ancora una volta questo.

di Maurizio Ermisino

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