“Se ti trapiantano un cervello di maiale sei un uomo o un animale?”. Che cosa vogliono dire davvero queste parole? Lo scopriremo solo alla fine, o quasi, di un film unico, bellissimo come L’innocenza, titolo italiano del celebrato Monster, di Kore’eda Hirokazu, premiato al Festival di Cannes dello scorso anno per la migliore sceneggiatura firmata da Sakamoto Yuji. Il film arriva finalmente al cinema dal 22 agosto, con alcune anteprime il 19. Quella domanda arriva un po’ a bruciapelo, fatta da un bambino undicenne alla madre. All’inizio ci sembra uno di quei dialoghi a cui non fare caso. Ma questa storia del cervello di maiale torna più volte, e coinvolge di volta in volta un maestro, un altro bambino e altre persone. Fino a farci capire la verità attraverso un gioco di prospettive, di veli che, una volta tolti, ci fanno capire davvero una storia di amicizia e di sentimenti, raccontata con una delicatezza fuori dal comune.
Minato ha 11 anni e vive con sua mamma vedova, dopo la morte del padre. A un certo punto inizia a comportarsi in modo strano. Torna da scuola sempre più avvilito: ferito da alcune parole, a volte anche ferito nel fisico. Torna a casa senza una scarpa. Oppure decide, tutto ad un tratto, di tagliarsi i capelli. Tutto lascia pensare che il responsabile sia un insegnante, così la madre si precipita a scuola per scoprire cosa sta succedendo. L’insegnante e la preside si scusano, masenza troppa convinzione. Ma la verità, come spesso accade nei film di Kore’eda, si rivelerà essere un’altra e i fatti sveleranno una profonda e toccante storia di amicizia.
Perché Monster? Il mostro del titolo originale del film sarebbe proprio chi ha questo cervello di maiale trapiantato nel proprio corpo: chi, secondo qualcuno, va contro le regole. Sono parole che fanno male a chi se le sente dire, che instillano un dubbio e la sensazione di essere sbagliato che porta a tutta una serie di comportamenti, un’escalation che coinvolge altre persone. Le parole possono fare molto male, come abbiamo detto. Ma chi è stato a pronunciarle? L’innocenza, o Monster se preferite, è un piccolo Rashomon di Kurosawa minimale e intimista: un film dove il racconto si ferma e riparte per tre volte, raccontato ogni volta da un punto di vista diverso. All’inizio vediamo i fatti come li vede la madre, poi è il turno della storia raccontata attraverso gli occhi del maestro. Infine è la volta di Minato, il bambino al centro della storia. È solo allora che vediamo la verità e capiamo che le cose spesso non sono quello che sembrano. Capita al cinema, e anche nella vita.
L’innocenza, così, si segue come una sorta di investigazione. Ma è un’investigazione sull’anima, sui sentimenti, sull’identità. Per questo emoziona doppiamente: tiene incollato il pubblico allo schermo per la curiosità di scoprire la verità di questo piccolo grande mistero, ma anche perché, dopo pochi minuti, teniamo molto a un bambino come Minato, così come al suo amico. L’innocenza è un film che ci ricorda quanto è fragile la mente di questi ragazzi in via di formazione, quanto una parola, un gesto o un’idea possa fissarsi nella loro testa e farli agire in un certo modo. E anche quanto sia difficile, e delicato, comunicare con loro.
Questa storia così bella è raccontata con una delicatezza e una pulizia uniche. La macchina da presa è sempre al posto giusto, non fa mai un movimento che non sia necessario. In tutto il film non c’è niente di superfluo, niente che non sia essenziale. Al centro ci sono i personaggi, i loro volti, le loro storie. Anche la colonna sonora, l’ultima firmata dal grande Ryuichi Sakamoto prima della sua scomparsa, è soffusa, delicata, sospesa, e completa le immagini senza sovrastarle mai. L’innocenza è comunque anche un film di grandi inquadrature: pensiamo a quella finestra coperta di fango in cui si cerca di far luce, ripresa dall’interno, o quella dei due bambini che salgono su un punto di vedetta che si staglia sul cielo azzurro, o la loro corsa tra l’erba alta.
Film perfetto dall’inizio alla fine, L’innocenza si chiude in qualche modo a cerchio, con un altro segreto che viene svelato insieme a quello principale e che completa quello che è un puzzle fatto di tanti piccoli tasselli che solo alla fine vanno al posto giusto. “Qualunque cosa non puoi dire soffiala via” è una delle ultime parole che sentiamo dire e che ci restano impresse. Così come altre parole, che racchiudono davvero il senso del film. “Se possono raggiungerla solo alcune persone allora non è felicità. Tutti devono poter essere felici”.
di Maurizio Ermisino