“La paga migliore sono i bei ricordi”. È una frase che sentiamo dire all’inizio di Ghostbusters: Minaccia Glaciale, al cinema dall’11 aprile, il nuovo film della franchise Ghostbusters, nata negli anni Ottanta e rilanciata qualche anno fa da Ghostbusters: Legacy, il legacy sequel che ha riportato in vita la storia con nuovi personaggi accanto ai personaggi storici. Sì, il cinema oggi vive di ricordi e l’operazione del legacy sequel è di fatto un’operazione nostalgia. Così i nuovi film di Ghostbusters da una parte provano a catturare un nuovo pubblico, quello di serie come Stranger Things, dall’altra provano a riconquistare noi, i ragazzi che in quel lontano 1984 andavano al cinema a vedere il primo Ghostbusters.
In Ghostbusters: Minaccia Glaciale, la famiglia Spengler torna dove tutto è iniziato, l’iconica caserma dei pompieri di New York, e si unisce agli Acchiappafantasmi originali che hanno sviluppato un laboratorio di ricerca top-secret per portare la lotta ai fantasmi a un livello superiore. Quando la scoperta di un antico artefatto scatenerà una forza malvagia, i vecchi e nuovi Ghostbusters dovranno unire le forze per proteggere la loro casa e salvare il mondo da una seconda era glaciale.
Ghostbusters: Legacy, il primo film di questa nuova saga aveva già tirato fuori un bel po’ di jolly dal mazzo di carte: lo zaino protonico, la cadillac Ecto-1 e tutta una serie di rimandi al film originale. Ghostbusters: Minaccia Glaciale si gioca delle carte pesanti, una serie di assi. Ci sono New York, la caserma dei pompieri che era il quartier generale di Ghostbusters. Ci sono alcune vecchie conoscenze, come Slimer, il fantasma verde fatto di gelatina golosissimo. E, soprattutto, ci sono loro, tre dei quattro Acchiappafantasmi originali: Dan Aykroyd, Ernie Hudson e Bill Murray nei panni di Stanz, Zeddemore e Venkman. L’ultimo, probabilmente, un po’ svogliato e al minimo sindacale, ma con quella faccia lì va bene tutto. Gli altri due, invece, sono già più inseriti nella storia.
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Rispetto a Ghostbusters: Legacy qui si perde un po’ l’effetto Stranger Things, che era dato dalla cittadina di provincia dove si svolgeva la storia e dalle atmosfere con cui era costruita l’attesa. L’effetto è però assicurato da uno dei protagonisti, Finn Wolfhard, il Mike della famosa serie Netflix, che è Trevor, uno dei nipoti di Spengler. Uno dei punti di forza di Ghostbusters: Legacy, infatti, era il cast: Wolfhard è perfetto per attrarre la generazione Stranger Things, mentre Mackenna Grace, che è Phoebe, l’altra nipote di Spengler, forse richiama un pubblico ancora più giovane. Se Wolfhard mantiene il suo proverbiale look con i capelli lunghi, l’attrice è truccata da nerd, con capelli ricci e occhialini rotondi, per richiamare Egon Spengler, il nonno che, a suo tempo, era stato uno degli Acchiappafantasmi (ed era interpretato dal compianto Harold Ramis). Phoebe ha l’espressione furba di chi la sa lunga, ed è la vera protagonista della storia. Paul Rudd, che interpreta Gary, è l’eterno ragazzo mai cresciuto, perfetto per essere allo stesso tempo un personaggio adulto, ma con un che di infantile. Carrie Coon, che è Callie Spengler, la figlia di Egon, è anche lei perfetta: è la mamma dei due ragazzi, ma anche una perfetta eroina d’azione.
È proprio Phoebe, il personaggio di Mackenna Grace, caratterizzato in modo perfetto e recitato in modo altrettanto riuscito, ad essere al centro di una novità nella saga. Parliamo dell’amicizia tra un’Acchiappafantasmi e un fantasma. In questo caso si tratta di una ragazza molto giovane, quasi una sua coetanea, che ha perso la vita in un incendio. E che, in qualche modo, riesce a comunicare con la nostra eroina.
Tutto questo farebbe pregustare un ottimo film, come lo era il predecessore. Ma, in questo Ghostbusters: Minaccia Glaciale si pensa invece più alle trovate che alla trama, a inanellare scene d’azione ad effetto (la prima, u ’inseguimento a New York, è notevole). E, soprattutto, ad affastellare personaggi uno sull’altro, per creare un film che sia più pieno possibile. Ma facendo questo, non c’è quell’approfondimento sui personaggi che c’era in Ghostbusters: Legacy. Andando veloce, passando da un personaggio all’altro, si finisce per non soffermarsi su nessuno. E per non far evolvere nessuno di loro. È un po’ il problema di tutti i sequel (in questo caso è il sequel del legacy sequel…): una sorta di terror vacui per cui bisogna per forza riempire il film di personaggi, di antagonisti e di situazioni. Se ci sarà un terzo film, speriamo che gli autori si ravvedano e riprendano il filo di Ghostbusters: Legacy, e quell’atmosfera un po’ malinconica, un po’ nostalgica, un po’ fanciullesca.
“Erano gli anni Ottanta, nessuno si preoccupava troppo del futuro” si dice a un certo punto nel film. Si riferisce a quello che, nell’universo narrativo di Ghostbusters, accadeva all’inizio della storia. Ma possiamo pensare quella frase anche a livello di cinema come industria. Nessuno, quando scriveva film come Ghostbusters, ma anche altri grandi film come Blade Runner, pensava a un sequel, né tantomeno al fatto che, quarant’anni dopo, si sarebbe provato a raccogliere l’eredità di questi film. Nessuno si preoccupava troppo nemmeno del presente, nel senso che si lanciavano idee folli, come quella che quattro matti a New York si mettessero ad aspirare ectoplasmi, si scrivevano sceneggiature in modi altrettanto folli, e si facevano i film, progetti folli che piacevano al pubblico. Era un’industria, ma aveva qualcosa di artigianale, di romantico, di spericolato. Oggi il cinema è un’industria vera e propria, che ragiona in termini di dati, numeri, algoritmi e marketing. Si producono sequel in serie, le saghe diventano brand che mettono il loro marchio su film all’infinito. Un po’ di quel romanticismo, insomma, si è perso.
di Maurizio Ermisino
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