“Tuo padre governava in un modo che seguiva le regole del cuore. Ma il cuore non è fatto per governare”. È una frase che sentiamo dire alla fine di Dune – Parte Due di Denis Villeneuve, il secondo capitolo della saga ispirata al romanzo Dune di Frank Herbert e seguito del film Dune, vincitore nel 2021 di sei Premi Oscar, in uscita al cinema il 29 febbraio. Come si può capire da queste parole, Dune – Parte Due assume toni ancora più intensi, tragici, shakespeariani nel raccontare la lotta per il potere delle casate degli Atreides e degli Harkonnen, tra trame di palazzo ed epiche battaglie, tra la ragion di stato e le ragioni del cuore. Dune – Parte Due riesce ad andare ancora oltre il primo film, a stupire visivamente e a ipnotizzare con il suo racconto, creando una nuova epica cinematografica che deve molto ad altre storie ma che trova una sua via, uno suo stile unico. È il primo grande film di questo 2024, quello con cui tutti dovranno fare i conti, al box office e alla prossima stagione dei premi, quello di cui si parlerà per i prossimi anni, fino a quando si chiuderà la trilogia con il terzo film.
La scelta tra l’amore e il destino dell’universo
Paul Atreides (Timothée Chalamet) si unisce a Chani (Zendaya) e ai Fremen, gli abitanti del pianeta Arrakis sul sentiero della vendetta contro gli Harkonnen, i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere.
Austin Butler, un essere proteiforme e belluino
A prima vista, Dune – Parte 2 è uno di quei film che colpisce già solo a leggere il cast clamoroso. Come scrivevamo in occasione del primo Dune, tutte le star del film brillano di luce propria e, allo stesso tempo, scompaiono nei loro personaggi, fondendo i loro volti e i loro corpi in un unico corpo attoriale e narrativo. Nel cast, accanto Timothée Chalamet e Zendaya, ci sono Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Florence Pugh, Dave Bautista, Christopher Walken, Léa Seydoux e Souheila Yacoub. E ancora Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling e Javier Bardem. Tutti volti indelebili. Ma a sconvolgere è soprattutto Austin Butler, che avevamo conosciuto sotto il ciuffo impomatato di Elvis, che qui è Feyd-Rautha Harkonnen, il ruolo che nel film di David Lynch era stato di Sting, un essere proteiforme e belluino, folle e assetato di morte, il corpo completamente glabro e il cranio calvo e rilucente.
Dune è il racconto dei racconti
Dune è il racconto dei racconti, racchiude decine di altre storie ma riscrive una storia nuova. C’è molto di Star Wars in Dune perché, come saprete, proprio il romanzo di Herbert è stata una grande ispirazione per George Lucas nel momento di creare quella famosa galassia lontana lontana. Paul Atreides, l’Eletto, il Profeta, è in qualche modo simile allo Jedi, a Luke Skywalker, un giovane che, attraverso un percorso di crescita, acquisisce una consapevolezza di sé e dei propri poteri. Ma se Star Wars deve molto a Dune, il romanzo di Herbert a sua volte deve molto alle Sacre Scritture. Paul Atreides, il protagonista, in fondo fa il percorso di Gesù. Come lui non viene riconosciuto subito come Messia, e la sua umiltà non lo fa subito imporre come tale. Come lui, che nel deserto era tentato dal Diavolo, tra le dune sabbiose del sud del pianeta Arrakis viene tentato dagli spiriti del Deserto. Figura cristologica per eccellenza (come lo sono tutti gli eletti del cinema, da Luke Skywalker al Neo di Matrix) Paul Atreides poi prende una sua via. La svolta che avviene verso la fine del film ne fa qualcosa di molto diverso, un leader carismatico ma anche violento, legato a un ruolo che gli impone scelte anche dure. Proprio come una figura shakespeariana.
Paul e Chani come Romeo e Giulietta
Ma c’è anche altro. Ci sono anche molti aspetti di altre religioni, come quella musulmana, in molte scene legate ai Fremen, e al loro modo di pregare e di vivere. In questo senso, i Fremen vengono rappresentati – sia per gli attori che li interpretano, sia per i loro modi di vivere – come i nostri abitanti di continenti come l’Africa o l’Asia, in particolare il Medio Oriente. E in quella loro voglia di ribellione e rivalsa contro i potenti della galassia, bianchi, si sente quasi il senso di un ribaltamento dell’attuale ordine mondiale, un voler compensare il colonialismo e i danni che l’occidente ha fatto al resto del mondo. Ma è una chiave di lettura ulteriore a una storia ben precisa. Che è anche una storia d’amore. Come non vedere, infatti, in quella scena di Chani chinata su Paul, che sembra in uno stato di morte, una celebre scena di Romeo e Giulietta? O ancora, nella storia di un uomo che arriva da fuori, e per amore sposa un intero popolo e cambia nome, non leggere quella che è la trama i Avatar?
Quell’arena enorme, infinita, interminabile
Una storia che già di per sé è articolata e intensa, carica di personaggi carismatici, è resa ancora più epica dalla costruzione incredibile dell’universo di Dune che ne fa Denis Villeneuve. Le scene indelebili sono tante, ma prendiamo su tutte quella dell’ingresso in scena di Feyd-Rautha Harkonnen, psicotico erede della famiglia rivale degli Atreides. In una sequenza virata in un bianco e nero carico di luce, ci troviamo in un’arena da gladiatori enorme, infinita, interminabile.
Spazi sterminati e volti indelebili
Ed è proprio questa la cifra di Dune, e di quella che è oggi la carriera di Denis Villeneuve. Da un lato punta al senso della meraviglia, dello spazio sterminato, della magniloquenza degli ambienti. Quell’immaginazione che in tante trasposizioni da libro a film va perduta con Villeneuve non è più un problema: con lui non ci sono limiti. Dall’altro lato, il regista canadese riesce a illuminare in modo speciale il viso dei protagonisti, a far uscire prepotentemente la luce degli occhi, che brillano come perle incastonate in quelli che sembrano dei volti scolpiti nella pietra, o dipinti su tela.
Cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro
Come avevamo scritto in occasione della prima parte di Dune, si tratta di un blockbuster d’autore, una definizione che sembra un ossimoro ma che con Denis Villeneuve non lo è. Quella di Dune è una saga cinematografica diversa da tutte le altre, che si tiene lontana dal pop, che rifugge il fantasy e i colori troppo accesi per dei toni caldi e uniformi, ma carichi di sfumature. Dune ha un suo ritmo, un suo stile di racconto che non è parossistico come il cinema d’azione di oggi. Ma è solenne, epico, ipnotico. Guarda in qualche modo alla prima trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, che ricorda soprattutto per la grandiosità delle battaglie e delle scene d’insieme. Ma sembra guardare anche a certi kolossal del passato, a Cecil B. De Mille. Dune non è cinema che appartiene al nostro oggi. È cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro. È fuori da ogni tempo. È cinema di un’altra epoca.
di Maurizio Ermisino
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