Andy Warhol è stato il primo artista mediatico. Il creatore dell’arte seriale, con le opere da serigrafare e diffondere. Il primo a capire che l’arte poteva venire da tutto, anche da una lattina di zuppa al pomodoro, ed essere su tutto. Come sulle copertine dei dischi. Andrei Warhola nasce il 6 agosto 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania: è un bambino pallido e malaticcio, che predilige le amicizie femminili e i fumetti, che ricopia diligentemente su carta. Inizia a frequentare i corsi di disegno al Carnegie Museum e al Carnegie Institute Of Technology, diventando presto picture editor di una rivista universitaria. Nel 1949 si trasferisce a New York. Inizia a lavorare a una serie di disegni di scarpe per la rivista Glamour, che dà il via alla sua carriera di grafico pubblicitario. Nel 1952 organizza la sua prima personale, ispirata agli scritti di Truman Capote, nel 1955 cura la campagna del famoso negozio di scarpe I. Miller. Nel 1961 prende le 32 qualità di minestra Campbell e le ritrae in maniera fredda e obiettiva su grandi tele. Warhol riproduce ciò che ama: cartoons, miti americani, dollari. Proprio con la serie Dollar Bills inizia a utilizzare la serigrafia per moltiplicare all’infinito un’immagine e “meccanizzare” il suo modo di dipingere. Nel 1962 espone le sue Campbell’s Soup Cans a Los Angeles e la serie delle Marilyn a New York. Nel 1963 affitta il celebre loft sulla Quarantasettesima, a New York, che diventerà la Silver Factory, e porta a Los Angeles una personale dedicata a Elvis Presley. Nel 1966 annuncia il suo addio alla pittura per dedicarsi al cinema (il film più importante è Chelsea Girls). Nel 1967 produce il disco The Velvet Underground & Nico. Nel 1968 la femminista Valerie Solanas gli spara, e il fatto che il suo staff avesse continuato a lavorare gli conferma l’idea dell’arte come business. Il 1972 è l’anno del ciclo dedicato a Mao. I personaggi famosi fanno ormai a gare per farsi ritrarre da lui e diventare a loro volta icone. Negli anni Ottanta si lega a nuove forme espressive, come il Graffitismo e ad artisti come Jean-Michel Basquiat. Al 1986 risale la serie dedicata al Cenacolo di Leonardo. Muore nel febbraio 1987 a New York.
Pittura, cinema, musica. Nel suo mondo tutto è collegato. E Andy Warhol ha avuto un ruolo chiave nella creazione di miti e icone nel mondo del pop e del rock. La celebre banana creata per The Velvet Underground & Nico, disco d’esordio della band di Lou Reed, è la storia del rock. Warhol divenne il manager della band dopo averli visti suonare al Cafè Bizarre del Greenwich Village, e impose loro la cantante tedesca Nico, costruendo attorno a loro la performance multimediale Exploding Plastic Inevitable. La copertina del disco è pura pop art alla Warhol: un oggetto di tutti i giorni, una banana, come la lattina di zuppa Campbell’s, elevata allo status di icona. Ma il vero colpo di genio è che la buccia di banana è formata da un adesivo, con una linguetta alla sommità e l’invito, grazie a una piccola scritta, a sollevare e vedere cosa c’è dietro. Warhol disegnò la cover come un lavoro autonomo, creando qualcosa di completamente slegato dai contenuti e del suono della band, il cui nome non appare sulla copertina, firmata solo da Warhol. Ma era lui ad essere conosciuto, non la band. Ma questo approccio rivoluzionario aiutò il disco a diventare uno dei più famosi della storia della musica.
L’altra grande icona warholiana che ha fatto la storia del rock è la cover di Sticky Fingers dei Rolling Stones, del 1971: fronte e retro rappresentano un primo piano di un uomo in jeans attillati, ripreso all’altezza del bacino. E in corrispondenza della chiusura dei jeans c’è una vera zip. All’interno, la busta che contiene il disco vede una foto della stessa zona in biancheria intima. Warhol propose a Jagger l’idea a una festa, nel 1969: anche qui si trattava di un’idea slegata dalla band, e pensata per il poster del suo film Lonesome Cowboys. Jagger e la band accettarono l’idea, che era perfettamente in sintonia con la reputazione iconoclasta della band. “Credo che fosse il packaging più sexy e originale in cui sia mai stato coinvolto” dichiarò il cantante degli Stones. Ma c’era il problema della zip, che rischiava di rovinare il vinile: si provò a rinforzare la cover con il cartone, ma nonostante questo alcune copie vennero danneggiate. E così si decise di lasciare la zip aperta. Ma molti negozi americani decisero di non vendere l’album proprio per la sua provocatoria copertina, che nella Spagna di Franco fu messa al bando dalla Chiesa Cattolica, e sostituita con un’altra cover. Anche questo contribuisce a creare un mito. Warhol collaborerà ancora con gli Stones per il disco dal vivo Love You Live (1977), disegnando linee a colori su delle Polaroid, ed Emotional Tattoo (1983).
Ma la lunga storia d’amore tra Warhol e la musica non inizia e non finisce qui. Warhol, come grafico, crea copertine sin dal 1949: jazz, con Count Basie e Thelonius Monk, e classica, con i Notturni di Chopin. E continua con artisti di tutti i tipi. Da Paul Anka (The Painter, del 1976), a Liza Minnelli (Live At The Carnegie Hall, del 1981), a Diana Ross (Silk Electric, 1982), fino ad Aretha Franklin (Aretha, 1986). Sono lavori più classici, i celeberrimi ritratti in primo piano, lavorati a dovere attraverso l’uso del colore nel classico stile Warhol, meno geniali rispetto alle sue copertine più famose. Tra i lavori di Warhol per la musica pop c’è anche una copertina per Loredana Bertè, e il suo disco Made In Italy del 1981, Un lavoro anomalo per Warhol, una foto in un bianco e nero molto contrastato, un intenso primo piano della cantante. È un lavoro da accreditare più alla Factory – in particolare al fotografo Christopher Markos – che al solo Warhol, che ha coordinato il progetto. Che nasce nel 1978, quando la cantante passò un anno e mezzo a New York, e conobbe Warthol in un negozio di Fiorucci. Il retro della cover è una bandiera italiana, e la copertina interna mostra mappe di Napoli, Roma e della metro di Milano. La Factory di Warhol girò anche il video di una canzone, Movie. Ma il rapporto con la musica italiana non finisce qui: c’è anche Miguel Bosè, con il suo disco Made In Spain, del 1983. La cover è una variante delle classiche immagini seriali di Warhol, sul modello di Twenty Times Marilyn o Eleven Times Elvis: solo che l’artista non ripete la stessa immagine ma riprende il cantante in diverse espressioni, giocando a colorare i ritratti di giallo e rosso. Caso piuttosto raro, la stessa immagine è stata utilizzata per un disco successivo, dello stesso anno, destinato al mercato italiano, Milano-Madrid.
Tra le chicche meno note di Warhol è da ricordare anche Menlove Ave. (1984), un disco postumo di John Lennon, non nella discografia ufficiale, fatto essenzialmente di registrazioni inedite dell’ex Beatle. Fu Yoko Ono, su richiesta della Capitol Records, a supervisionare l’artwork e a commissionarlo a Warhol, dandogli due foto dalla sua collezione personale. Warhol realizzò due ritratti virando il volto di Lennon sulle tonalità del rosso. È uno dei lavori più intimi di Warhol, che di Lennon era molto amico. Il senso della perdita del grande artista si nota dallo sfondo nero del ritratto, e dai bagliori arancioni sul suo volto, che evocano le luci della fiaccolate avvenute in tutto il mondo alla notizia della sua morte. Nel portfolio di Warhol ci sono anche artisti delle generazioni successive del rock: Debbie Harry, ex frontwoman dei Blondie, ha in comune con Warhol il fatto di essere una creatura di New York. L’artista la raffigura in un intenso e aggressivo primo piano per Rockbird, il suo secondo disco solista del 1986, uscito in quattro versioni, con le scritte in verde, rosso, arancione e ocra. La Harry è fotografata davanti a un dipinto di Warhol, appartenente alle Camouflage Series, che fa solo da sfondo. Gli Smiths di Morrissey e Johnny Marr hanno in comune con Lennon il fatto di essere una delle realtà più interessanti nate in Inghilterra. La confezione per The Smiths, il loro disco d’esordio del 1984, è molto sobria e più legata al cinema che alla pittura di Warhol: non è stata creata direttamente da lui, ma è tratta da una fotografia di un film della Factory. È una foto in bianco e nero di Joe Dallesandro, star del film Flesh, prodotto da Andy Warhol e diretto da Paul Morrissey nel 1968. Peter Morrissey, leader degli Smiths, scelse una foto, e decise di utilizzarne solo una parte: in quella mancante un uomo pratica una fellatio a Joe.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
Credit Photo: https://warholrevisited.com/