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Avatar: Fuoco e Cenere. È tempo di tornare su Pandora. E di tornare a fare la Storia del cinema

Avatar: Fuoco e Cenere. È tempo di tornare su Pandora. E di tornare a fare la Storia del cinema

È tempo di tornare su Pandora. Avatar: Fuoco e Cenere, in uscita nei cinema il 17 dicembre, è il terzo capitolo della saga di Avatar, una produzione che ha fatto la Storia del cinema, firmata da chi la aveva scritta già diverse volte, uno che di nome fa James Cameron. Ritroviamo così degli amici che ci sembra di aver lasciato da poco, per come ormai fanno parte di noi. Sono il marine diventato leader Na’vi Jake Sully (Sam Worthington) e la guerriera Na’vi Neytiri (Zoe Saldaña). Insieme a loro ritroviamo tutta la famiglia Sully. La storia inizia poche settimane dopo gli eventi di Avatar: La Via dell’Acqua. La famiglia Sully vive ancora in mezzo al Clan dei Metkayina nelle barriere coralline di Pandora, ma sta imparando ad adattarsi alla vita senza Neteyam, ucciso in un brutale scontro con la “Gente del Cielo”. Mentre Spider si è completamente adattato alla vita con il popolo della barriera corallina, la famiglia Sully è preoccupata per la sicurezza del ragazzo e si rende conto che non può più rimanere con loro. Dopo aver conosciuto il Clan dei Tlalim, i Mercanti del Vento, un pacifico clan nomade che viaggia nell’aria solcando i cieli, il loro capo accetta di riportare Spider al Campo Alto, la roccaforte degli Omatikaya. Alla fine, tutta la famiglia Sully decide di unirsi nel viaggio. Che viene però interrotto quando il gruppo viene attaccato dai membri del Clan dei Mangkwan, il Popolo della Cenere, guidato da Varang (Oona Chaplin).

A differenza dei primi due film, Avatar: Fuoco e Cenere parte subito con uno scontro, con una sconfitta, con la paura. Manca tutta quella parte della scoperta di un mondo – che nel primo film era quello della terraferma e della foresta, e poi dell’aria, e nel secondo era quello dell’acqua – e la relativa meraviglia e stupore per la bellezza e la magia del pianeta Pandora. Viene introdotto subito un nuovo luogo e un nuovo popolo, il Popolo della Cenere. Gli abitanti di questa terra sono selvaggi e spietati. E sono raffigurati in un modo simile a come il vecchio cinema americano raffigurava i pellerossa, i nativi americani.

E infatti il nuovo Avatar: Fuoco e Cenere ha qualcosa del vecchio cinema western – le atmosfere, l’epica, gli scontri e la natura degli avversari – e anche qualcosa di quel cinema distopico raccontato dalla saga di Mad Max, la devastazione dei luoghi e i popoli brutali e selvaggi. È, ovviamente, sempre e soprattutto una rilettura del grande cinema d’avventura degli anni Quaranta, già rinato negli anni Ottanta con una serie di fortunate saghe (quella di Indiana Jones su tutte) e filtrato, ormai 15 anni fa, da James Cameron tramite gli effetti speciali e la fantascienza.

James Cameron, in tutto il suo cinema, è sempre stato specializzato nel creare figure iconiche, sin dai suoi Aliens – Scontro finale e Terminator. I personaggi di Avatar sono iconici per eccellenza, nella loro natura felina, nel colore blu, che li ha resi creature diverse da tutto quello che avevamo visto finora al cinema. A ogni nuovo capitolo, Cameron opera delle variazioni sul tema. E anche in questo terzo capitolo fa centro con un personaggio memorabile. È Varang, la leader del Popolo della Cenere, una creatura che prende vita grazie alle performance capture, e quindi grazie alla bravura dei tecnici ma soprattutto dell’attrice che le dona espressioni e movimenti, una sorprendente Oona Chaplin (sì, è la nipote del grande Charlie Chaplin). Gli occhi bistrati di nero, i segnali di guerra dipinti sul volto, il copricapo rosso a raggiera e quel morso ferino che anima la sua bocca. Varang è un’antagonista pericolosa e allo stesso tempo sexy (infatti un personaggio cade preda del suo fascino).

Se Varang è un grande, nuovo personaggio, tra i personaggi chiave della saga ritorna Kiri, già conosciuta – e amata – in Avatar – La via dell’acqua, il secondo capitolo della saga. È a tutti gli effetti una figura messianica, cristologica, e virata al femminile. È la figlia della dottoressa Grace, il personaggio interpretato da Sigourney Weaver nel primo Avatar, nata una volta che è stata accolta da Eywa, la Madre terra. Di fatto è la figlia della Divinità che si è fatta persona per salvare il suo popolo. È il tramite tra la Divinità e la gente. E il parallelo con la figura di Gesù Cristo è evidente. Ma Kiri è anche la creatura che più di ogni altra ci fa capire la magia del cinema e la magia di James Cameron. Quella di riportare, grazie al computer e alla performance capture, Sigourney Weaver ad essere un’adolescente, come non l’avevamo mai vista neanche noi sul grande schermo. L’attrice è bravissima: perché, anche se la figura creata al computer è sorprendente, è lei, con la sua arte, a ringiovanire nell’anima per dare i movimenti e lo sguardo di una ragazzina al suo personaggio.

Come valutare il nuovo Avatar – Fuoco e cenere? James Cameron ha già fatto la Storia del cinema con il suo primo Avatar, per l’idea, l’innovazione, lo sviluppo della tecnologia al servizio della sua poetica. C’è poco altro da aggiungere oggi, se non continuare questa bellissima storia e continuare riportarci, periodicamente, nel mondo di Pandora. Avatar Fuoco e cenere è la nostra terza volta (si fa per dire, perché ognuno di noi quei primi due film li ha visti più e più volte). Si tratta allora di continuare a raccontare questo mondo e i suoi protagonisti, che ormai conosciamo bene. Ogni nuovo film di Avatar è in fondo la stessa storia (già il primo si rifà a una storia archetipica e i sequel riprendono i canoni dell’originale con variazioni) e allo stesso tempo è sempre nuova. Perché arrivano nuovi luoghi, nuovi personaggi, nuove sfumature.

La vera rivoluzione di Cameron non è il 3D. Il cinema tridimensionale, immersivo è il modo ideale per vedere Avatar per viaggiare davvero dentro Pandora, per trovarsi in quel pianeta, per viverlo. Ma il cinema in stereoscopia non ha sfondato, dopo un inizio scoppiettante non ha attecchito e ora a fare i film in 3D è praticamente il solo Cameron, e, di fatto, Avatar “è” il 3D. Ma negli ultimi anni è rimasto il solo film ad essere prodotto con questa tecnica. No, la vera rivoluzione di James Cameron è stata quella di aver creato un mondo che sembra quasi esistere e vivere di vita propria. È come se Pandora esistesse sempre. E che fossimo noi, a distanza di tempo, a tornare a visitarlo.

Avatar, a suo modo, è stato fin dall’inizio un film politico. Si è parlato da subito di colonizzazione – tema eterno ed universale, che dura da secoli – e anche di esportazione della democrazia con la guerra, perché il primo film era del 2010 ed erano fresche e attuali le guerre americane sui suoli del Medio Oriente. Si è parlato subito di ecologia, e dello sfruttamento sfrenato delle risorse del pianeta. Nel futuro prossimo venturo immaginato da Cameron gli abitanti della Terra vogliono colonizzare un nuovo pianeta perché il nostro è già inesorabilmente sfruttato e devastato. E intendono fare lo stesso anche con il nuovo. In questo Avatar 3 c’è un discorso ancora nuovo. È un messaggio potente sulla presenza delle armi nella società. Che può essere visto su due livelli. Uno è il possesso di armi tra i privati cittadini americani, criticato da tempo, che finisce per far diventare la vita delle persone un far west. Ma è ancora più attuale, materia di discussione in questi giorni, la sfrenata corsa agli armamenti delle nazioni, in nome di una sicurezza e di una “difesa” che sembra trascinare tutti verso la guerra.

La saga di Avatar ci dimostra che James Cameron è allo stesso tempo avanguardia e classicismo. I suoi film – è sempre stato così – sfruttano ogni volta la tecnologia più moderna e sofisticata a disposizione. Ma Cameron non si piega mai ai ritmi della narrazione che si vorrebbero applicare oggi anche al cinema, per avvicinarlo alla fruizione delle serie tv e dei video, sempre più brevi, che pare colgano l’attenzione sui social. Il respiro di un film di Cameron è sempre quello di un cinema classico, quello che potrebbe essere un John Ford o uno Steven Spielberg. È un cinema che ha i suoi tempi, le sue pause, il giusto dosaggio tra azione e riflessione tra ritmo e pause. È un cinema orchestrato da uno dei più grandi registi viventi.

di Maurizio Ermisino

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