“Pare che l’unico scopo della tv sia farci odiare l’un l’altro per derubarci mentre lottiamo nel fango”. Sono parole che sentiamo in The Running Man, il nuovo film di Edgar Wright con Glen Powell, che è datato 2025 (esce il 13 novembre al cinema con Eagle Pictures), ma che in realtà viene da molto lontano. Nasce infatti da un romanzo del 1982, scritto da un certo Stephen King, anche se, in quell’occasione, si era firmato con lo pseudonimo di Richard Bachman. E che era già arrivato al cinema con un primo adattamento nel 1987, con il titolo L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger come protagonista e la regia di Paul Michael Glaser. Già nel lontano ’82, allora, Stephen King aveva immaginato una tv onnipresente, pervasiva, crudele e senza scrupoli pur di fare ascolti. E quindi soldi. E poi, provate per un attimo a mettere i social media al posto nella tv nella frase sopra. Funziona ancora meglio. Quelli Stephen King nell’82 non poteva averli previsti, ma comunque di media si tratta: alcuni schemi sono quelli. E allora si può capire quanto King, a suo tempo, sia stato profetico. E questa preveggenza è al tempo stesso la forza e il limite (uno dei limiti) del film.
The Running Man è il programma televisivo più seguito al mondo: un reality show estremo in cui i concorrenti, chiamati “runner”, devono rispettare una sola regola per restare vivi: fuggire per 30 giorni, in diretta tv, braccati da killer professionisti, detti “cacciatori”, mentre il pubblico, incollato agli schermi, esulta a ogni esecuzione. Ben Richards (Glen Powell) non è un eroe. È un uomo qualunque, costretto a una scelta impossibile: entrare nel gioco per salvare la figlia malata. A convincerlo è Dan Killian (Josh Brolin), il carismatico e spietato produttore dello spettacolo, maestro nel trasformare la sofferenza in spettacolo, la paura in share, la morte in intrattenimento. Ma Ben non segue il copione. Corre, lotta, resiste. E contro ogni previsione diventa un idolo: il pubblico lo acclama, gli ascolti volano.
In fondo, è la vecchia storia del Colosseo. Panem et circenses. Il pubblico vuole questo e la povera gente è carne da macello per il suo divertimento. In un’arena come in un programma tv lo schema è sempre quello. E anche qui c’è qualcuno che può decidere della vita dei concorrenti, pollice in su o pollice verso. I topos della tv di domani sono quelli della tv di oggi, la grammatica è la stessa: si riscrive la realtà in nome di un racconto che sia il più appassionante possibile. È una tv spietata, senza scrupoli, che arriva anche a trasmettere la morte in diretta. In tanti, da tempo, teorizzano che il prossimo passo della nostra tv – o dei social, a questo punto – sarà questo.
È un racconto anomalo nella carriera di Stephen King, The Running Man. A tratti, come tematiche, sembra di essere più dalle parti di Philip K. Dick, anche se i toni non sono quelli, che nel classico racconto del Maestro dell’horror. Siamo in una distopia. E, come sappiamo, la distopia funziona se è molto in anticipo sulle situazioni e sui tempi. Detto che i tempi che viviamo sembrano correre in modo così veloce che qualsiasi previsione e qualsiasi fantasia viene superata dalla realtà, il ritratto di una tv spietata e crudele poteva fare più sensazione nel 1982 o nel 1987 che oggi. In The Running Man sembra di essere davvero già nella realtà mediatica dei nostri giorni. A proposito, quella in cui si svolge l’azione sembra essere l’America di Trump di oggi, in cui tutti sono contro tutti e sembra che si voglia muoversi a una velocità tale da non aspettare gli ultimi. Ma, in fondo, anche l’Europa repressiva che pare si stia volendo far nascere in questi anni. La realtà di oggi è così crudele che a creare mondi distopici si fa fatica. Sembra che venga quasi a mancare quello scarto tra la realtà e la creazione letteraria e filmica.
Ma il film ha un altro problema. Quando parliamo di distopia pensiamo sempre – colpa del fatto che abbiamo visto troppe volte Blade Runner, certo – a dei film che abbiano una certa atmosfera, una grande costruzione a livello visivo, in cui ci sia azione ma anche un ritmo tale che consenta la riflessione e la sedimentazione del messaggio. Qui è tutto tonitruante, esplosivo, isterico. È vero, il film si chiama The Running Man, e si va di corsa. E quindi il film è soprattutto ritmo e azione senza respiro (la sequenza sulle note di Heartbreaker dei Led Zeppelin è molto riuscita). Ma tutto è sopra le righe, troppo sopra le righe, con il protagonista, seguito dagli altri attori principali, in continuo overacting. È vero che la situazione è parossistica, folle, ma quel continuo esagerare, quel fare le facce, quella rabbia esternata nel modo più plateale possibile finiscono quasi per minare la credibilità della storia. Glen Powell è bravo, è il nuovo divo di Hollywood, ma di strada deve farne ancora tanta per raggiungere il livello delle star storiche.
Un film come The Running Man è ovviamente molto derivativo, deve molto ad altre opere. Ci sembra un Hunger Games sotto steroidi, ad alto tasso di testosterone. Gli spunti, in una storia come questa, non mancano. Il mondo diviso nettamente in due, tra ricchi e poveri, la solidarietà che dovrebbe esserci tra chi si trova in condizioni di bisogno, e che in pochi capiscono, l’assuefazione acritica ai media. E, soprattutto, il nostro mondo che ormai è in mano alle grandi corporation. Sono loro che comandano, non le istituzioni. Ma anche questa è già storia di oggi.
Ma c’è un altro modo in cui si può leggere questo The Running Man. Torniamo a quella frase dell’inizio. “Pare che l’unico scopo della tv sia farci odiare l’un l’altro per derubarci mentre lottiamo nel fango”. Potremmo vedere The Running Man come il cinema che dichiara guerra alla tv – a tutte le tv, anche le piattaforme – che da sempre è la sua grande rivale, oggi più che mai viste le nuove tecnologie. È come se dicesse alla tv che è cattiva, che non è la realtà, che è solo profitto. E che il media più intenso, più onesto, più reale è lui. Il vecchio cinema.
di Maurizio Ermisino
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