“Cercasi Susan disperatamente. Spero ancora. Ore 10 a Battery Park”. Periodicamente, Jimmy resta in contatto con la sua innamorata, l’indipendente e libera Susan, tramite gli annunci su un quotidiano, in un’era ancora senza telefoni cellulari e WhatsApp. Periodicamente, la bella Susan legge questi annunci e, se è possibile, si presenta a incontrare il suo innamorato. Molto spesso, Roberta, una ragazza sposata e benestante che non conosce né Jimmy né Susan, legge quegli annunci e vola con la mente fantasticando sulla storia d’amore tra questi due misteriosi sconosciuti. Un mattino decide di andare a vedere chi sono: si presenta a Battery Park, New York… Questo è lo spunto da cui parte Cercasi Susan disperatamente, il film di Susan Seidelman del 1985, che ha compiuto 40 anni, ed è stato presentato di recente alla Festa del Cinema di Roma, dove la regista ha tenuto una masterclass. È un piccolo film, indipendente e molto semplice, sostanzialmente una commedia degli equivoci. Ma è diventato immediatamente un cult. Il perché è molto semplice: nel ruolo di Susan recita Madonna, che all’epoca era appena esplosa con l’album Like A Virgin ed era la popstar del momento (e lo sarebbe stata per i seguenti 40 anni). Cercasi Susan disperatamente era il suo esordio al cinema, attesissimo. Ma Cercasi Susan disperatamente non è solo Madonna. È un film che si presta a molte letture. Ha un messaggio femminista in anticipo sui tempi. E un discorso sulla moda importante. Cercasi Susan disperatamente è liberamente ispirato alla storia di Céline e Julie vanno in barca (Céline et Julie Vont en Bateau), di Jacques Rivette, del 1974. È stato presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 38º Festival di Cannes.
Madonna, alias Susan, entra in scena subito, dopo pochi minuti, dopo che abbiamo appena visto Roberta cerchiare con il rossetto, con un cuore, l’annuncio sul giornale. Troviamo Susan sdraiata sulla moquette di una camera d’albergo, intenta a scattarsi una polaroid (allora non c’erano smartphone i selfie si facevano così). Madonna è immediatamente iconica. Indossa una giacca corta, grigio-verde, con dei revers gialli e neri, e un’enorme piramide sovrastata da un occhio sulla schiena. Si dice che fosse appartenuta a Jimi Hendrix, ma chi lo saprà mai. Sotto indossa semplicemente una guêpière di pizzo e calze nere. I capelli, castani con mèches bionde, non sono ancora quelli “blond ambition” che la caratterizzeranno nella sua carriera. Spesso qui porta i capelli raccolti, con un collant annodato sulla nuca a mo’ di fiocco anni Cinquanta. E poi i guanti di pizzo bianchi, decine di braccialetti di caucciù ai polsi. Al collo, una serie di catene indossate tutte insieme, e, spesso, il crocifisso. E, sotto a quella famosa giacca, canotte di rete indossate su reggiseni di pizzo nero a vista, in un nude look sui generis, inventato proprio da lei.
Tutto questo non è rimasto dentro a quella pellicola. Tutto questo, in quel lontano 1985, è uscito dallo schermo per arrivare nel guardaroba di milioni di ragazze in tutto il mondo. In quegli anni c’erano varie tendenze. C’era ovviamente l’alta moda lanciata da stilisti come Armani, Versace e Valentino, una moda per portafogli gonfi. C’era la moda che dalla new wave sfociava nel dark e nel new romantic. C’era la moda dei paninari, anche tra le ragazze. E poi c’era quella moda che veniva chiamata proprio così, lo stile Madonna, uno stile che non aveva bisogno di grandi somme per acquistare i vestiti, ma che necessitava, oltre che l’ispirazione data dalla diva, di fantasia, gusto, arte di andare a trovare quello che ci piace. “Hai comprato una giacca di seconda mano? Ma non siamo messi così male” dice a Roberta il marito quando, dopo varie peripezie, la vede con la famosa giacca di Susan. Ma il punto non è questo. Il look di Susan è libertà, è indipendenza, è scelta. È essere se stessi.
Ed è assolutamente questo che Susan rappresenta per Roberta. Un’aspirazione, un’ispirazione, un modello. Susan è quello che Roberta non è mai stata, e il fatto di sostituirsi a lei – per caso più che per scelta – è la svolta che aspettava dalla vita. Moglie borghese e annoiata, ragazza che il suo compagno evidentemente “non vede”, Roberta ha l’occasione di sparire e ricomparire altra, di rinascere. La scomparsa e la perdita della memoria, in fondo, sono stratagemmi usati più volte, in letteratura e al cinema, per far cambiare vita a una persona che ne ha bisogno. Per Roberta, la scomparsa, la perdita della memoria, l’identificazione, per un equivoco, con Susan, serve finalmente a liberarla da tutte le convenzioni e le costrizioni che aveva avuto finora, da una vita bloccata. Roberta non diventerà mai Susan, si identificherà con lei solo per pochi giorni, ma Susan – intesa come idea prima che come persona – sarà la spinta per diventare finalmente se stessa, per diventare chi sceglierà di essere.
“Roberta l’ha mai raggiunto l’orgasmo?”. Questa domanda, che l’amica del marito di Roberta gli pone a un certo punto, è una delle chiavi del film. Sì, in Cercasi Susan disperatamente si parla di piacere femminile, di diritto al piacere e all’attenzione. E, di conseguenza, di libertà di scelta. Attenzione, perché nel 1985 non era affatto scontato, e non erano poi molte le opere che ne parlavano in modo così diretto. Cercasi Susan disperatamente, allora, è un precursore, è un film che anticipa molti dei discorsi che sarebbero arrivati trent’anni dopo e più, quelli su cui si dibatte oggi. E su cui, ancora oggi, c’è bisogno di lottare. Susan Seidelman, in pieni anni Ottanta, gettava le basi di un nuovo femminismo, diverso da quello impegnato, collettivo e militante degli anni Settanta, ma più individuale, libero, in linea con i tempi che stava vivendo. Cercasi Susan disperatamente è un femminismo in chiave pop, ma non per questo il messaggio è meno forte.
Susan Seidelman confeziona un piccolo grande film, un cult movie che è anche un instant movie, per come coglie spirito, mode e atmosfere di quegli anni. È girato in una New York non ancora gentrificata e ancora selvaggia, libera, composita e meticcia, un luogo ideale dove pensi che tutto possa davvero accadere. Madonna, alla sua prima apparizione da attrice, è perfetta. Al tempo tutti dissero che era facile, perché stava interpretando se stessa. Se, in parte, Louise Veronica Ciccone ha portato nel film il suo peregrinare di porta in porta alla ricerca del successo (che però è qualcosa che Susan non sembra agognare, mentre Madonna è sempre stata determinatissima nel diventare una star), è anche vero che è riuscita a dare a Susan la giusta personalità e la giusta caratterizzazione, rendendo vivo e vibrante un personaggio che rischiava di restare sulla carta. Ma, nel cast, è importantissima anche Rosanna Arquette, che interpreta Roberta, la vera protagonista della storia (curiosamente l’attrice ha vinto un BAFTA ed è stata nominata ai Golden Globes come miglior attrice non protagonista), una ragazza dolente e sensuale, ed è bravissima a rendere il suo spaesamento. Accanto a loro c’è Aidan Quinn nei panni del love affair di Roberta e c’è un John Turturro all’esordio, nel ruolo del presentatore del locale di cabaret dove si svolge in parte la storia.
E poi c’è la musica. C’è un viaggio che va dalle canzoncine anni Cinquanta come The Shoop Shoop Song al punk Lust For Life di Iggy Pop, cioè il mondo borghese e quello alternativo. C’è Respect di Aretha Franklin. E poi c’è Into The Groove, scritta da Madonna e Stephen Bray, lanciata in concomitanza del film, e poi entrata nella ristampa dell’album Like A Virgin, che era già uscito ed era un successo mondiale. Inno all’amore e al ballo, alla libertà e alla vita sulla pista da ballo delle discoteche, è diventato un classico di Madonna e una delle canzoni che richiama immediatamente gli anni Ottanta. Il film fu un successo e, a vederlo oggi (lo trovate su Prime Video), è invecchiato benissimo, anzi non è invecchiato affatto. Madonna, in quel momento, aveva intanto codificato un look e uno stile destinato ad essere identificato con quegli anni, ma, in realtà, a durare per sempre. E, mentre milioni di ragazze la seguivano adottando quello stile, Madonna, come al solito, era già oltre. Neanche un paio d’anni e l’avremmo ritrovata con un caschetto biondo platino e un look anni Sessanta. Era il momento di True Blue. Ma questa è un’altra storia.
di Maurizio Ermisino
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