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Venezia 82, A House Of Dynamite: Kathryn Bigelow ci riporta nell’incubo nucleare

Venezia 82, A House Of Dynamite: Kathryn Bigelow ci riporta nell’incubo nucleare

“Non se. Quando”. È questa la frase di lancio di A House Of Dynamite, il nuovo film di Katrhryn Bigelow che ieri ha scosso il Festival di Venezia. Quel “quando” si riferisce a qualcosa che pende sopra le nostre teste come una spada di Damocle: un possibile attacco nucleare. È questo che racconta il film della regista americana, premio Oscar per The Hurt Locker (regia e film) nel 2010. Cosa farebbero gli Stati Uniti se qualcuno lanciasse un missile nucleare contro di loro? “Non se. Quando”. È un modo per dire che l’incubo nucleare non è in arrivo, ma è già tra noi. “Alla fine della Guerra Fredda avevamo concordato che si vive meglio con meno armi nucleari. Quell’era è finita” ha raccontato l’Autrice a Venezia.

A House Of Dynamite arriverà il 24 ottobre su Netflix, e qualche settimana prima al cinema. Si svolge nella Stratcom, il centro che controlla l’arsenale nucleare americano, quello che avevamo visto nel finale dell’ultimo Mission: Impossibile. Un luogo che, già di per sé, genera ansia e inquietudine. Che non possono che aumentare e arrivare a un livello estremo se arriva l’allerta per un missile che sta volando dritto verso Chicago. Non si sa da che nazione provenga, non si riesce ad intercettare. Alla Casa Bianca è crisi. Inizia così una corsa contro il tempo per capire, prima di tutto, chi sia il responsabile dell’attacco. E poi, ovviamente, quale debba essere la reazione.

A colpire è il fatto che gli americani chiamino la Russia, la Cina, la Corea del Nord. Ma nemmeno una telefonata viene fatta a quelli che dovrebbero essere gli alleati, come il Canada e i Paesi dell’Europa. “Si chiamano i potenziali nemici, è un’America isolazionista ed è bene esserne consapevoli” ha spiegato la regista. “Era importante umanizzare i personaggi e mantenere l’ambiguità, un modo per invitare il pubblico a pensare che cosa avrebbe fatto al posto loro. Noi tutti dobbiamo essere informati, il mio messaggio è arrivare a una discussione sulla non proliferazione delle armi nucleari, se vogliamo sopravvivere. Oggi il pericolo non ha fatto che aumentare. Eppure c’è una sorta di intorpidimento collettivo, una silenziosa normalizzazione dell’impensabile”.

Kathryn Bigelow è sempre stata una delle cineaste più rilevanti del cinema americano. Titoli come Blue Steel, Point Break, il meraviglioso Strange Days, K-19 l’hanno consacrata come maestra dell’adrenalina, dei muscoli, dell’azione senza respiro, del ritmo. Legata sentimentalmente a James Cameron, è come se al cinema fosse stata la sua metà: altrettanto spettacolare e potente, ma ancora più concreta, laddove Cameron puntava anche ad essere sentimentale. La seconda vita di Kathryn Bigelow è legata a un altro sodalizio, professionale e sentimentale: quello con Mark Boal, ex giornalista passato alla scrittura per il cinema, che ha lavorato alle sceneggiature di film come The Hurt Locker, Zero Dark Thrirty e Detroit. Storie dalla Guerra in Iraq, dalla caccia a Osama Bin Laden, fino a un fatto di cronaca, violenza e razzismo dal recente passato della storia americana. Da un cinema dichiaratamente di finzione e spettacolare a una sorta di giornalismo filmato, ugualmente tesissimo e ritmato, ma decisamente ancorato al racconto del reale. A House Of Dynamite, scritto da Noah Oppenheim (autore della serie Netflix Zero Day) è un ulteriore svolta nella sua carriera. Non è vero, ma verosimile. Non è la cronaca odierna, ma potrebbe essere quella di domani. È, probabilmente, la summa delle due vite cinematografiche della regista.

Rebecca Ferguson, sobria nel suo tailleur e con i capelli raccolti in una coda di cavallo, quasi un alter ego della regista, è la figura al centro della storia, colei che dirige la Stratcom. Idris Elba è il presidente degli Stati Uniti, non ispirato a nessuna figura in particolare. A House Of Dynamite è uno di quei film che scuotono e che non lasciano indifferenti, per il tema trattato, ma anche per come la Bigelow riesce a tenere alta la tensione della storia. Che è proprio il suo mestiere. “Ogni volta la storia riprende più o meno dallo stesso punto per mostrarci nuovi protagonisti e diversi punti di vista, ma ogni volta la Bigelow sa far salire la tensione e la suspense” ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera. “Al centro ci sono le domande sui disequilibri che dopo la fine della Guerra Fredda hanno spinto ad ingigantire i propri arsenali atomici e che lo schermo nero con cui si chiude il film sa ricordare perfettamente”.

Ma è illuminante anche ciò che scrive Giuseppe Grossi su Screen World. “Bigelow è tornata dopo 7 anni di pausa per sollevare problemi, scoperchiando il vaso di Pandora. In questo suo rifiuto di sentenze e risposte, il film diventa una creatura molto affascinante, dimostrandosi quasi un cavallo di Troia. Ci spieghiamo meglio: A House of Dynamite è un film Netflix che, senza mai rinunciare al montaggio ansiogeno e al linguaggio del grande cinema, ha un ritmo rapido perfetto per il contesto dello streaming. Un po’ come Fincher con The Killer, anche Bigelow accorcia i tempi e adatta la struttura del film, cercando un compromesso con la grande N. E qui arriva il cortocircuito. Perché se il pubblico televisivo è ormai talmente abituato a sapere tutto da pretendere di conoscere tutto di quello che sta vedendo, A House of Dynamite alza un bel dito medio e fa “no” con l’indice. No, non viviamo tempi in cui siamo in grado di avere risposte. Figuriamoci pretenderle”. L’attesa per la visione di A House Of Dynamite, insomma, è altissima. “Il film esplora la follia di un mondo che vive all’ombra costante dell’annientamento eppure ne parla di rado. Viviamo tutti, letteralmente, sotto una casa di dinamite”.

di Maurizio Ermisino

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