Guillermo Del Toro era solo un bambino, aveva sette anni, quando vide per la prima volta il famoso Frankenstein con Boris Karloff. Da allora la storia scritta da Mary Shelley gli è rimasta dentro, lo ha accompagnato negli anni, è diventata la sua ossessione. E ora è diventata un grande film, la sua visione sulla storia del Dr. Frankenstein e della sua creatura, un kolossal da 150 minuti con un budget da 120 milioni di dollari. Presentato al Festival di Venezia, lo vedremo al cinema dal 22 ottobre e su Netflix dal 7 novembre. Frankenstein è un film sul quale Guillermo Del Toro lavora da trent’anni e ora è finalmente realtà. La storia la conoscete. Victor Frankenstein, uno scienziato brillante ma egocentrico, dà vita a una creatura in un esperimento mostruoso che sarà la rovina sia del creatore stesso che della sua tragica creazione.
Guillermo Del Toro aveva già vinto il Leone d’Oro a Venezia con La forma dell’acqua, una storia che vedeva il “mostro” da un altro punto di vista: il suo. E qualcosa di simile accade anche qui. Il film infatti è diviso in due parti. La prima è il racconto del barone Victor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac. La seconda è proprio il racconto della creatura, interpretata da Jacob Elordi. In questo modo riusciamo a capire il dolore e la sofferenza di questo essere così diverso dagli altri. Che, nella messa in scena di Del Toro, è una creatura meno mostruosa del solito, diversa dall’iconografia classica della creatura di Boris Karloff.
“Ho ricevuto un’educazione cattolica, quando ho visto Boris Karloff mi è sembrato il Messia” ha racconta Guillermo Del Toro a Venezia. “Ho cercato per trent’anni il trovare il modo giusto per fare il mio film, mi ha accompagnato per tutta la vita, come fosse la mia Bibbia”. Il film parla decisamente di lui, di Guillermo Del Toro. “La creatura, il mostro, sono sempre stato io. Ma nel corso degli anni sono stato anche Frankenstein e pure Elizabeth. È veramente una seconda natura per me. Il Dna di quel bambino di sette anni è andato a fondersi con quello di Mary Shelley, che ne aveva diciannove quando ha scritto il romanzo, raccontando con coraggio cose che nessuno diceva. Era un libro moderno, non volevo che il film fosse un’opera in costume dai colori pastello. Volevo che Victor fosse vestito come Mick Jagger a Soho nel 1970”. Quelle del Frankenstein di Del Toro sono immagini nitide, chiare, dominate dal bianco, ma con colori accesi come i verdi e i viola.
Nel ruolo della creatura del Dottor Frankenstein c’è l’attore ormai pronto a diventare la nuova star di Hollywood. È Jacob Elordi, noto per aver interpretato il Nate Jacobs della serie Euphoria e Elvis Presley in Priscilla di Sofia Coppola. In modi diversi, è sempre stato il maschio tossico e prevaricatore. Qui è in un ruolo completamente diverso, che da un lato ne mortifica la bellezza, dall’altro ne fa emergere le capacità attoriali. Un ruolo che, stavolta, racconta la fragilità. Jacob Elordi è diventato la creatura con dieci ore di trucco. “Dieci ore che mi permettevano di diventare il mio personaggio, di annullare me stesso e di entrare in uno spazio sacro che ho preservato con cura e ora mi manca. Senza il trucco mi sento un po’ perso” ha raccontato a Venezia. “Mi ricordo quando, da bambino, andavo da Blockbuster a cercare la vhs di Frankenstein. Nulla di questa storia è mai stato lontano da me: ogni singolo aspetto ha a che fare con me con la mia scelta di fare cinema, per questo ho cercato di essere il più possibile onesto e sincero”. Nel cast ci sono anche Mia Goth e Christoph Waltz.
Il film di Guillermo Del Toro ha convinto anche la critica a Venezia. Giuseppe Grossi, su Screen World, ha scritto questo. “Dalla morte alla vita. Dal buio alla luce. Curioso come l’ossessione di Victor Frankenstein assomigli al destino di ogni regista. Un uomo che per dare vita alla sua creatura, deve mettere insieme i pezzi. Creare qualcosa di nuovo assemblando teste, mani e cervelli altrui. Sarto supremo di un corpo nuovo, che prima della scintilla creativa nemmeno esisteva. Facile immaginare un autore come Guillermo del Toro affascinato da questa affinità, da questa ambizione ardente che brucia dentro gente appassionata come lui. E chissà da quant’è che voleva girarlo, questo Frankenstein. Immaginario gotico, conflitti violenti, mostri umanissimi: la storia perfetta per un regista che le strane creature le ha sempre raccontate da una prospettiva tutta sua”.
Paolo Mereghetti, sul Corriere della Sera, ha parlato così del film. “Guillermo Del Toro umanizza la creatura (meno mostruosa del solito, anche per non pagare all’Universal i diritti per la “maschera” di Boris Karloff) e sposta l’interesse dalla creazione alle sue conseguenze. Senza affrontare tutti i temi coinvolti (i limiti della scienza, la possibilità per il mostro di avere una coscienza, la violenza come unica risorsa) ma costruendo un grande spettacolo che sa tener desta l’attenzione per tutti i 149 minuti”. Che vogliate vederlo al cinema o su Netflix, allora, provate a guardare quel film con gli occhi di un bambino. E a provare quella cosa che sempre più di rado, oggi, ci si presenta: lo stupore.
di Maurizio Ermisino
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