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Warfare: Alex Garland e Ray Mendoza ci immergono nell’orrore della guerra

Warfare: Alex Garland e Ray Mendoza ci immergono nell’orrore della guerra

“Guerra, a cosa serve? Assolutamente a nulla” diceva quella vecchia canzone. Non c’è modo migliore per iniziare a raccontarvi Warfare – Tempo di guerra, il nuovo film di Alex Garland e Ray Mendoza, in uscita nelle sale italiane il 21 agosto, con una serie di anteprime il 16 e il 17 agosto. Premio alla Miglior Regia per Alex Garland e Ray Mendoza al Taormina Film Festival, Warfare – Tempo di guerra, si muove tra due capolavori del film di guerra come The Hurt Locker e Salvate il soldato Ryan, ed è stato definito “la nuova frontiera del war movie”. Mai definizione fu più azzeccata. È davvero così.

Immersivo, intenso, senza fiato, Warfare è tratto da una storia vera e basato sulle testimonianze dirette di un gruppo uomini dei corpi speciali della marina americana, i Navy SEAL, tra cui lo stesso Mendoza, che qui è al suo debutto alla regia. Racconta in tempo reale la drammatica missione del 19 novembre 2006 a Ramadi, in Iraq.  Non è solo un film di guerra ma un film dentro la guerra: un racconto che ripropone la crudezza e la violenza fisica e mentale del fronte, che va oltre la visione per far vivere allo spettatore un’esperienza cinematografica totale, fra azione e adrenalina pura.

All’inizio siamo trascinati dentro la storia da una molteplicità di visioni. Poi la visione diventa, drammaticamente, una sola. Prima ci sono le telecamere che scrutano dall’alto e permettono ai militari di vedere le persone in movimento come puntini. Sono le immagini dei satelliti, che contrastano con quelle ad alta definizione di oggi. Poi abbiamo le soggettive dei Navy Seals, la vista di quello che si trovano davanti ogni volta che fanno irruzione in un ambiente. La visione è quella che avremmo da camere fissate su di loro, sulle bodycam sulle loro tute, sui loro caschi, l’immagine che appare sul mirino dei loro fucili.

Warfare è un film davvero immersivo. Perché la macchina da presa è sempre all’altezza dei soldati. È letteralmente in mezzo a loro, fissata su uno di loro, oppure è uno di loro. E così il nostro sguardo è quello dei marines. Vediamo gli “altri” come li vedono i soldati. Non come veri e propri esseri umani, ma come possibili bersagli, su cui viene fatto un lavoro di studio quasi chirurgico, di analisi e di scelte, prima di sparare. Innocenti o pericolosi nemici, siamo comunque diffidenti verso l’altro.

La macchina da presa a mano ci porta dritti nel cuore dell’azione, nell’occhio del ciclone, seguendo la lezione di Paul Greengrass (The Bourne Ultimatum, Bloody Sunday, United 93), Ma Garland e Mendoza provando ad aggiornarla, a portarla a un livello superiore. Sì, perché Paul Greengrass ha usato questo suo modo di riprendere l’azione per fare spettacolo o comunque narrazione. Warfare è un film anti-spettacolare e anti-climatico. Vuole essere solo la documentazione più fedele possibile di che cos’è la guerra, di che cosa sono il dolore e la morte. Una morte lenta, tra dolori incredibili. O la vita, da sopravvissuti, ma cambiati per sempre nella testa e nel corpo.

È in questo senso che Warfare è la vera frontiera del War Movie. È come i film di Greengrass ma senza alcun intento spettacolare. È come i primi, famosissimi, 24 minuti di Salvate il soldato Ryan di Spielberg, ma per quasi tutto il film, senza alcun cambio di registro, senza neanche un attimo di respiro. È un film che, ancora una volta, ci racconta la totale assurdità della guerra. Ma non c’è solo l’assurdità della guerra in sé, implicita in ogni sequenza del film. C’è proprio la crudeltà del lavoro del soldato. Si pianificano attentamente degli attacchi, si seguono le procedure, si seguono gli ordini. E poi basta un attimo, una granata, un proiettile, e tutto va a farsi benedire. Basato su racconti reali, Warfare cerca in tutti i modi di rispettare la realtà delle testimonianze. È un racconto verista, lontano dal classico war movie epico, glorioso, tonitruante.

È un film corpi sventrati e sanguinanti. Ma non si tratta solo dei corpi. L’orrore è anche nei suoni, nelle urla, nelle richieste di aiuto di chi è stato colpito, e che arrivano ai compagni. Che devono trovare la lucidità di agire, di fare il meglio per salvare un commilitone, mentre sono assediati dai colpi, mentre il rumore delle bombe continua, mentre il pericolo, la morte, possono arrivare da tutte le direzioni. Devi fare, e intanto una granata ti ha fottuto l’udito e annebbiato la vista. Devi difenderti. Devi salvarti la vita. Ma non riesci neanche a farlo, perché non vedi più niente. Perché intorno a te hai solo polvere e nebbia. Devi salvarti la pelle, ma la morte è tutta intorno a te e ti rende immobile, ti paralizza. Perdi l’udito. Oppure lo conservi. Ma se riesci ancora a sentire, le urla dei tuoi compagni feriti ti annientano. Sono insostenibili, lancinanti. Eppure devi agire, devi salvare loro e salvare te stesso. Nel panico più totale, nel delirio più completo, devi rimanere lucido.

Warfare è il controcampo di Civil War, il precedente film di Alex Garland, uno dei migliori della scorsa stagione, nonché incredibilmente attuale e profetico. Civil War è ambientato in un futuro prossimo venturo, Warfare nel recente passato. Civil War vive in uno scenario immaginario, per quanto sempre più vicino alla realtà, Warfare in un mondo concreto e realmente esistito. Civil War è girato come un film classico, con una narrazione tipica di un lungometraggio di guerra, con l’approfondimento dei personaggi e il respiro di un film di finzione. Warfare è un film di finzione che vuole smettere di esserlo e mascherarsi da documentario, in modo da essere il diario filmato di un’azione di guerra. Il film dello scorso anno è recitato attori / mattatori riconoscibili, che portano il loro virtuosismo a servizio della storia. Nel nuovo film gli attori scompaiono completamente nei loro personaggi. In Civil War i personaggi in scena dialogano, si raccontano, e fanno in modo da far uscire le loro storie. In Warfare i caratteri non lo fanno: non potrebbero, stanno morendo o stanno cercando di scappare alla morte. In tutta la prima parte, non entriamo in empatia con loro: ci sembrano distanti, presi dal loro lavoro. Ma, non appena cominciano ad essere feriti, a sanguinare, a implorare aiuto, l’empatia scatta immediatamente. È evidente che sono vittime, pedine mosse sullo scacchiere da chi è più in alto di loro e non sta rischiando nulla, dai masters of war che ancora oggi decidono in un attimo chi e quando mandare a morire.

di Maurizio Ermisino

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