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Presence: La ghost story dal punto di vista del fantasma. È l’horror secondo Soderbergh

Presence: La ghost story dal punto di vista del fantasma. È l’horror secondo Soderbergh

Una casa vuota. Una musica soffusa, rilassante, un pianoforte che fa da colonna sonora. E la macchina da presa che si muove lentamente, entrando e uscendo dalle stanze vuote. Quella casa la vediamo di notte e poi di giorno. Disabitata e poi abitata. Arriva una famiglia di quattro persone: padre, madre, un figlio e una figlia, adolescenti. Arrivano i mobili e quella casa si riempie di vita. Ma quella macchina da presa continua a muoversi e a scrutare chi si muove in quella casa. È un’osservatrice discreta, calma. È così che inizia Presence, il nuovo film di Steven Soderbergh con Lucy Liu, al cinema del 24 luglio, distribuito da Lucky Red. È un horror, ma completamente diverso dagli altri, originale, insolito. Non poteva che essere così con un cineasta come Soderbergh.

Ma qual è la storia di Presence? È molto semplice. Nella casa in questione arriva la famiglia Payne. È una famiglia tranquilla. Ma ha un elemento molto fragile: è la figlia minore Chloe, che è stata sconvolta da un tragico evento. E proprio per questo la famiglia ha scelto di trasferirsi in una nuova casa, fuori città, per ripartire da zero. Presto però la ragazza si accorge di qualcosa che non va nella sua camera; inizialmente la famiglia non le crede, ma cambierà idea quando le manifestazioni diventeranno impossibili da ignorare.

Soderbergh gira Presence sfruttando quelli che solitamente, al cinema, vengono considerati dei virtuosismi. La soggettiva, quel tipo di ripresa in prima persona, che associa lo sguardo della macchina da presa a quello di uno specifico personaggio. E il piano sequenza, quella tecnica di ripresa fatta di un’unica inquadratura continua senza stacchi di montaggio. Soderbergh ne fa un uso naturale, non insistito e funzionale al racconto. Sono piani sequenza brevi, che corrispondono ai momenti di vita significativi che il regista sceglie di farci vedere.

Come si capisce dal titolo, è la storia di una presenza, una ghost story. Ma è raccontata come nessuno aveva fatto prima, cioè dal punto di vista dell’entità. Non alla maniera de Il sesto senso o The Others, cioè prendendo il fantasma come protagonista, come punto di riferimento, incentrando la storia su di lui. Ma prendendo letteralmente il punto di vista della presenza, cioè il suo sguardo: la soggettiva fa sì che il suo occhio sia il nostro. In questo modo l’immedesimazione è totale. Noi vediamo quello che vede lei. E, di conseguenza, proviamo quello che prova lei.

Questo espediente narrativo, semplice ma geniale, ci fa conoscere questa presenza in modo unico. Non ha un volto, non ha corpo, nessuno dei personaggi la vede. E ovviamente nemmeno noi. Perché è impalpabile. E perché, come detto, noi siamo lei, il suo sguardo è il nostro. Così non abbiamo bisogno che il suo personaggio parli, ad esempio con monologhi interiori. Perché, guardando quello che accade insieme a lei, pian piano abbiamo un’idea di quello che è successo e quello che sta succedendo, dei legami con i personaggi della storia. E allora succede che, nel nostro intimo, cominciamo a provare i suoi sentimenti, le sue ansie, le sue paure. Non abbiamo bisogno di nessuno che ci guidi con delle spiegazioni: ognuno di noi comincia a provare dei sentimenti, ad essere lei. Presence, in questo modo, diventa uno straordinario generatore di empatia.

E diventa un film doppiamente immersivo. Nel senso più evidente del termine, per come la soggettiva ci immerge nella casa e nelle vite delle persone. E, in un senso più sottile, quello di cui scriviamo qui sopra: l’immersione nella mente della presenza, nelle sue sensazioni, nei suoi sentimenti. Non li apprendiamo, ma li viviamo direttamente noi, ognuno a suo modo, mentre seguiamo il suo sguardo.

Così quella che in fondo è la storia di una casa infestata in realtà diventa quasi un’altra cosa. È un mélo, un film psicologico, a tratti drammatico. È un film che vive su una tensione sottile, prima appena accennata e poi sempre più crescente. Si comincia con dei libri che vengono spostati, con un soffio d’aria che apre una porta. Ci emozioniamo quando Chloe, davanti a noi, avverte per la prima volta la presenza. Poi vediamo, anzi viviamo in prima persona, reazioni sempre più violente.

Presence è un horror che non è paura. Non è jumpscare, non fa saltare sulla sedia. Non fa inorridire, non è raccapricciante. È sottile, intrigante, intellettuale. È cinefilo. Crea attesa e tensione con un semplice oggetto che si sposta. Crea empatia, come detto, con l’entità che è la vera protagonista della storia. Ci fa sentire l’impotenza, il non poter salvare chi è in pericolo per l’impossibilità di superare quella parete che divide il mondo dei morti dal mondo dei vivi. Il tutto è condito da un sottofinale sorprendente e un finale che – per sorpresa, suono, dolore – fa gelare il sangue nelle vene.

di Maurizio Ermisino 

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