“Boots, boots, boots, boots, movin’ up and down again! There’s no discharge in the war!” “”Stivali, stivali, stivali, stivali, su e giù ancora! Non si congeda in guerra!”. Il poema Boots di Rudyard Kipling, nel suo incedere ritmico e ossessivo, fa da colonna sonora alla prima “uscita”, con arco e frecce, del giovane Spike con il padre Jamie. Il poema di Kipling vuole cogliere la ripetitività e la monotonia della marcia militare, la mancanza di tregua di un mondo in guerra. È uno dei momenti che più rimangono in testa dopo la visione di 28 anni dopo, il nuovo film horror di Danny Boyle, terzo atto della saga iniziata con 28 giorni dopo e proseguita con 28 settimane dopo, di cui Boyle era solo produttore esecutivo. E inizio di una nuova trilogia con altri due film in arrivo. 28 anni dopo il virus della rabbia che ha colpito il Regno Unito e lo ha messo in quarantena, i superstiti vivono in una sorta di guerra costante, insegnano ai figli la caccia e il combattimento. È una continuazione efficace della storia iniziata con 28 giorni dopo, ma anche un’opera carica di messaggi attualissimi, come vedremo.
L’inizio è fulminante. Torniamo agli inizi, all’esplosione del virus. Su una vecchia tv scorrono le immagini dei Teletubbies, un programma per bambini. Alcuni ragazzini lo stanno guardando, ma nei loro volti c’è terrore, perché fuori da quella stanza sta accadendo qualcosa. Poco dopo il disastro arriva anche in casa loro: sono degli esseri umani furiosi e affamati, in preda a un’epidemia chiamata rabbia che li trasforma in degli zombie fuori controllo. La storia riprende 28 anni dopo lo scoppio dell’epidemia. Ci troviamo su un’isola al largo delle Highlands scozzesi, unita alla terraferma da una strada, una striscia di terra, che appare e scompare a seconda delle maree. È un luogo rimasto fuori dal tempo, isolato e chiuso in se stesso. Spike (Alfie Williams), 12 anni, viene portato dal padre Jamie (Aaron Taylor Johnson) sulla terraferma per una sorta di rito di iniziazione, la sua prima caccia con arco e frecce, il suo primo faccia a faccia con gli infetti. “Più uccidi, più diventa facile” gli spiega il padre. Lui, però, vorrebbe andare sulla terraferma per curare la madre Isla (Jodie Comer), che è malata. Sulla terraferma gli zombie sono ovunque. Sono di diverso tipo. I lenti bassi, uomini mutati per strisciare, spendere poche energie, e cibarsi di vermi. Poi ci sono gli zombie che corrono, veloci e lucidi. E, ancora, gli Alfa, esseri su cui il virus ha avuto l’effetto di uno steroide: fortissimi, intelligenti, quasi imbattibili.
28 anni dopo si svolge in due atti (più un epilogo): prima un viaggio con il padre, poi quello con la madre. Prima c’è il mondo maschile, con i suoi rituali di combattimento, la caccia, la guerra, il dover cresce come dei duri, senza paura. Poi c’è il femminile, con la sensibilità e l’affetto. Quella Holy Island, l’isola rimasta staccata dal mondo, è una riuscita e voluta metafora sulla Brexit. È l’Inghilterra che si è chiusa in se stessa, che è tornata indietro, agli anni Cinquanta, a un mondo arretrato e patriarcale che non vuole dialogare con il resto della società. La metafora, in realtà, opera in due sensi. Se la piccola isola rappresenta la Gran Bretagna di oggi, le scritte dopo il prologo del film ci raccontano che, dopo l’esplosione del virus, il Regno Unito è stato messo in quarantena dal resto dell’Europa: insomma, una Brexit non voluta ma imposta. Una sorta di nemesi di quello che è accaduto nella realtà.
Ma 28 anni dopo è attuale anche per altri aspetti. Guardiamo il piccolo Spike, 12 anni, costretto a uscire con arco e frecce per combattere gli infetti, guerriero designato quando è ancora un bambino, e ci sembra di vedere una delle tante immagini del mondo di oggi in cui i bambini che vivono in alcune zone pericolose sono costretti a crescere in fretta, troppo in fretta per la loro età. È anche a questo che si pensa per tutto il film.
E poi 28 anni dopo è un film che parla di un’epidemia: il primo capitolo era del 2002, quando la pandemia era qualcosa che non avevamo ancora vissuto. Questo, invece, è stato scritto proprio dopo che una pandemia è davvero accaduta, ed è inevitabile pensare a come questa si sia riflessa sul film. Il fatto che la storia si svolga diversi anni dopo sposta però il centro del problema. Non è un film sul virus, sul contagio, ma su quello che siamo diventati dopo il virus. E anche questo fa riflettere.
Il continuo senso di paura, attesa, ansia, imminente pericolo caratterizza tutto il film. Ci arriva forte il senso di sentirsi circondati, l’idea che la morte possa arrivare da qualunque direzione, da un momento all’altro. In una parola, è suspense. È affascinante e inquietante allo stesso tempo il ritratto di un mondo tornato alla natura, in cui gli animali corrono selvaggi e liberi. È affascinante perché la natura prende il sopravvento nella sua bellezza. È inquietante perché noi umani non ci siamo quasi più, o siamo diventati qualcos’altro. E perché Danny Boyle, filmando, punta forte sul contrasto tra la bellezza dei fiori, ripresi spesso da vicino, e la mostruosità degli esseri che si aggirano in questa natura incontaminata. E, in mezzo alla natura, spicca, in uno dei momenti più forti del film, il “memoriale” costruito dal dottor Kelson, interpretato da un Ralph Fiennes ispirato al Colonnello Kurtz di Apocalypse Now. “Memento mori”, ricordati che devi morire. È un monito rivolto a tutti: chiunque, qualsiasi sia la sua strada, dovrà arrivare a quel punto
Danny Boyle, come al solito, gira e monta benissimo. Dai totali stacca spesso su dei particolari, come quando le frecce colpiscono un volto di un mostro. Dalle immagini del girato stacca a volte su immagini di repertorio, immagini antiche di vita militare. Con il suo solito stile “punk”, monta a ritmo di rock e mescola immagini e linguaggi diversi, dando un senso di movimento non banale. Ha raccontato di aver girato con i droni, con gli smartphone e le macchine da presa a mano, in modo da far trovare spesso l’immagine nell’occhio del ciclone, nel cuore dell’azione. Danny Boyle firma un film brutale, senza sconti, ma anche a suo modo dolce e poetico. 28 anni dopo – che avrà due sequel, e l’ultima sequenza ne detta le premesse – non è un semplice proseguimento di 28 giorni dopo e 28 settimane dopo, ma qualcosa di più profondo. Da vedere.
di Maurizio Ermisino
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