“Mi ristampavano ogni volta che morivo. I dati erano salvi”. È la voce narrante di Robert Pattinson, nei panni di Mickey, a raccontarcelo, all’inizio di Mickey 17, il nuovo film di Bong Joon Ho, il regista di Parasite, presentato al Festival di Berlino e dal 6 marzo al cinema distribuito da Warner Bros. Siamo in un futuro lontano ma non troppo, il 2054, e si immagina che la ricostruzione del corpo umano sia possibile. Non la clonazione, attenzione: ma una sorta di “ristampa” – in originale la chiamano “human print” – come se una stampante 3D potesse ricreare all’infinito un corpo, utilizzando del materiale organico riciclato, una volta immagazzinati i suoi dati biometrici. I dati della mente – i ricordi, i pensieri, le conoscenze – sono salve in un software e vengono reinstallati ogni volta.
Tratto dal romanzo di Edward Ashton (il cui titolo recita più semplicemente Mickey 7), Mickey 17 racconta la storia del lavoratore Mickey Barnes (Robert Pattinson), un umano che ha scelto di andare nello spazio. È un “sacrificabile”, un uomo che può essere lasciato morire e ristampato. La missione è su un pianeta ghiacciato che un miliardario, Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), vuole colonizzare. Mickey 17 si chiama così perché è morto e rinato diciassette volte. Una volta scampato misteriosamente alla morte, torna sull’astronave e scopre che, mentre era creduto morto, è stato creato un Mickey 18.
In un mondo disumano come quello del 2054 esiste ancora un’etica. La stampa degli umani sulla Terra è vietata, ed è ammessa, appunto, solo nello spazio. E solo per i “sacrificabili”. Ed è tutto in questa parola il senso del film, o almeno uno dei suoi significati importanti. “Sacrificabili” (expendables in originale) sono quegli esseri umani che non hanno nulla da perdere, che non hanno altre chances nella vita, quelli arrivati ultimi nella piramide sociale. Quella del “sacrificabile” è una condizione che esiste anche oggi nel nostro mondo. Quella del film è chiaramente una metafora, ma pensate a quanti sacrificabili ci siano oggi. Intere categorie di persone, ad esempio nel mondo del lavoro, delle politiche sociali, sono lasciati indietro. Interi popoli, invece, sono letteralmente lasciati morire, perché definiti non importanti. Non occorre spiegarlo, la realtà è sotto gli occhi di tutti.
Mickey è come i personaggi che fanno parte della famiglia povera di Parasite, il precedente film di Bong Joon Ho. Come loro è un ultimo della classe, un dimenticato, senza arte né parte, né alcuna possibilità di riscatto. Come loro è stato lasciato indietro, è destinato a non essere visto, ad essere schiacciato, non una, ma infinite volte. Anche se Mickey, in qualche modo, un riscatto ce l’avrà.
Mickey 17 è una storia che, in parte, è già stata raccontata. Pensiamo a Edge Of Tomorrow con Tom Cruise (a sua volta figlio della commedia Ricomincio da capo), ma anche al sottovalutato Le morti di Ian Stone di Dario Piana. Ma di nuovo qui c’è un’ironia tutta particolare. È quell’ironia caustica, amara, velenosa, che avevamo trovato in Parasite. Ride Bong Joon Ho, ride quando ci mostra gli ultimi della classe. Ma non ride di loro. Ride della situazione assurda che li vuole relegati al posto in cui sono. Ride della loro condizione per farsi beffe di chi l’ha creata. In realtà è assolutamente dalla parte degli ultimi, empatizza con i suoi protagonisti. Per loro ha un sorriso. Come in Parasite ha invece una risata beffarda, uno sberleffo per chi comanda i giochi, per chi è all’apice della piramide.
Ed è così anche qui. Perché il modo in cui viene raffigurato l’antagonista del film non è affatto conciliante. Si chiama Kenneth Marshall (stranamente come quell’attore che, una quarantina d’anni fa, interpretò il Marco Polo televisivo di Rai 1). E che pare somigliare tanto a Elon Musk: i gesti, l’aura, l’approccio sono i suoi. Viene descritto come un miliardario che ha tentato la via della politica ma ha perso le elezioni. E ha puntato tutto sui viaggi nello spazio. Non fa il saluto nazista con il braccio alzato e la mano tesa, ma quasi: il braccio è in quella posizione, ma con il dito indice puntato verso l’alto. Verso le stelle, o chissà.
C’è anche il Bong Joon Ho di Snowpiercer e di The Host. Del primo film torna la fantascienza, il futuro distopico, il tema del viaggio e anche, soprattutto, quello della netta distinzione in classi, dai primi agli ultimi. Di The Host torna il senso per le creature misteriose, i “mostri” che forse non lo sono. Mickey 17 è uno Star Wars politico, folle e ironico. Ha forse il solo difetto che, parlandoci attraverso l’ironia e la farsa, perde quel senso di epicità di cui un film del genere avrebbe bisogno, e di quell’empatia che ci avrebbe portati più vicini ai personaggi. Il tono sovraccarico, eccessivo, tipico di un certo cinema coreano, è però proprio quello che distingue Mickey 17 da un classico blockbuster di fantascienza.
È un film pieno di significati. C’è, come detto, la critica ai nuovi tycoon della tecnologia, i nuovi padroni del mondo, c’è un messaggio politico, dedicato agli “ultimi” del mondo, e un messaggio ecologico, che ci fa riflettere sullo sfruttamento delle risorse. E poi c’è anche il discorso, attualissimo, su un “nemico” che è tale solo perché così è stato definito. E che non sarebbe un nemico se solo si provasse a trovare il dialogo. E allora finiamo la visione del film pensando a una cosa. Forse il mondo sarebbe migliore se tutti provassero, come il nostro Mickey 17, a sforzarsi di capire che cosa l’altro sta cercando di dirci.
di Maurizio Ermisino
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