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The Beast: Léa Seydoux, le vite che viviamo e quelle che vorremmo vivere

Inizia sbattendoci in faccia dichiaratamente la finzione del cinema, The Beast, il film di Bertrand Bonello con Léa Seydoux, in uscita al cinema il 21 novembre. Léa Seydoux impersona proprio un’attrice che recita davanti al green screen. Intorno a lei non c’è nulla, solo un enorme spazio verde: deve immaginare tutto, seguendo le suggestioni del regista. Bonello ci porta subito dietro le quinte, nel lavoro del regista, in quello dell’attore. Svela subito che quello che stiamo guardando non è la realtà. Ma è solo l’inizio di un film che ci porterà continuamente dentro e fuori dalle storie, dalle epoche. Una vicenda complicatissima per raccontare quella che è la storia più vista del mondo: un amore impossibile. The Beast è un film stratificato, ma anche confuso, affascinante, ma anche pretenzioso, pieno di spunti, ma anche incompiuto. È un film che ci parla della solitudine di oggi, dell’impossibilità di creare relazioni. E di quelle vite che viviamo con la sensazione di non viverle. O con il desiderio di viverne altre.

In un futuro prossimo in cui l’intelligenza artificiale regna suprema, le emozioni umane sono bandite. Per liberarsene e purificare il proprio DNA, Gabrielle (Lea Seydoux) accetta di sottoporsi a una procedura che la porta a rivivere le sue vite passate. Tutte sono accomunate da due costanti: l’incontro con Louis (George MacKay), l’amore della sua vita, e una sorta di premonizione, il timore continuo di un’imminente catastrofe, una minaccia che attende di colpire come una bestia in agguato nella giungla. Gabrielle e Louis si incontrano nel 1910, come membri dell’alta società parigina della Belle Époque all’alba della storica alluvione della Senna, e nella Los Angeles del 2014, dove lei è un’attrice in erba e lui un misogino che ne diventa ossessionato. E poi nel 2044, l’epoca di partenza.

Bertrand Bonello rilegge un racconto di Henry James, La bestia nella giungla, ma ne fa un’opera molto personale, in cui troviamo echi di molti altri registi e altri film, senza che però il film somigli a nessuno di loro.  Era stato pensato già nel lontano 2017, quando il regista lo aveva scritto per Léa Seydoux e Gaspard Ulliel, che avevano lavorato insieme a lui in Saint Laurent (2014). Il Covid prima, e la tragica morte di Ulliel, a cui il film è dedicato, hanno fermato la lavorazione del film, che finalmente è diventato realtà.

The Beast è tre film in uno. È un film di fantascienza distopica. È un film in costume. Ed è un film indipendente, che ricorda certi film degli anni Novanta dei primi Duemila, anche se l’azione è nel 2014. È questa la parte che ha più spazio nel film, è questa quella in cui risuonano gli echi di altre opere. Qui ci sembra di essere un po’ in Maps To The Stars di Cronenberg, un po’ in Mulholland Drive di David Lynch. Ci fa pensare a lui anche il ricorso alla musica degli anni Cinquanta, come You Belong To Me di Patsy Cline, una canzone che detta l’atmosfera di alcune sequenze, e in qualche modo svela il senso del film.

È questa la parte più lunga del film, e anche la più interessante. Per il ruolo di Louis nel 2014, Bonello si è ispirato ad Elliot Rodger, l’uomo al centro del massacro di Isla Vista; in sceneggiatura ha ripreso intere parti del suo videomessaggio-manifesto. Ha scelto di ambientare questa storia nel 2014 per cogliere un momento della società prima del Me Too, in cui certi comportamenti erano più plausibili. Per il futuro del 2044, invece, ha provato a creare un’atmosfera diversa dal solito: non le strutture futuristiche e ipertecnologiche, neanche i paesaggi post-apocalittici. Ma gli edifici in cui viviamo oggi, un mondo normale. Ma da cui è stato tolto quasi tutto: le automobili, le persone, internet.

L’anima del film è Léa Seydoux, in scena praticamente per tutta la durata del film, mentre altre figure intorno a lei ruotano. È lei che tiene in piedi il film, è lei che ci tira dentro la storia, convincente e credibile anche tutte le volte che il film non lo è. Senza trucco, acqua e sapone, in costumi d’epoca o in abiti semplicissimi: pantaloni e un maglione, jeans e una camicetta, che mettono comunque in mostra il suo fisico sinuoso. Ma la sua interpretazione è tutta nel volto, capace di passare dall’apatia alla delusione, dall’innamoramento alla paura, fino al terrore. Chi ama l’attrice francese, da lei non rimarrà certo deluso.

E dal film? Dal film forse sì. Perché a tratti, come detto sopra, sembra seguire le orme di David Lynch. Per cui dà vita a un film carico di suggestioni. Ma è anche vero che, se vuoi fare un film alla Lynch, poi quel film devi saperlo tenere in mano, sostenendolo con immagini potenti, scene che colpiscano nel profondo. Ma, soprattutto, facendo in modo che i conti tornino, che il film, a suo modo, trovi un senso anche quando ci è sembrato il contrario. Tutto questo Bonello non riesce a farlo. Ma, d’altra parte, di Lynch c’è ne soltanto uno.

di Maurizio Ermisio

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