Chi fa il minimo rumore, muore. Le regole del gioco del mondo di A Quiet Place, lo sappiamo, sono queste. La Terra è stata invasa da alieni voraci e minacciosi che non vedono, ma hanno un udito sviluppatissimo. E, a ogni minimo rumore, individuano e sbranano la loro preda. La saga di A Quiet Place si arricchisce ora di un nuovo capitolo, il terzo, ed è un prequel. A Quiet Place: Giorno 1, al cinema dal 27 giugno, è una nuova storia, con nuovi protagonisti e, come dice il titolo, ci riporta al giorno in cui tutto è iniziato. Ancora una volta A Quiet Place fa centro: il film spaventa e tiene il pubblico sospeso con una tensione costante. Lo sapete: fare un qualche tipo di rumore è un attimo. E morire è un attimo.
C’è un cambio di scenario in A Quiet Place: Giorno 1. Non siamo più nell’assolata e isolata America rurale, ma nell’affollata New York. Al centro della storia c’è Samira (Lupita Nyong’o), una giovane poetessa: malata terminale, si trova in un hospice poco fuori città. Decide, con gli altri della struttura, di andare in centro per vedere uno spettacolo di burattini a teatro. E, spera lei, per prendersi una pizza, uno dei pochi piaceri che le sono rimasti. Con lei c’è il suo gatto. Ma, appena finisce lo spettacolo, ci si accorge di qualcosa di strano. Qualcosa precipita dal cielo. Sono i temuti alieni che abbiamo conosciuto nei precedenti film. Nel suo fuggire lungo le strade di New York, incontrerà un ragazzo impaurito, Eric (Joseph Quinn), con cui stringerà una sorta di amicizia e alleanza.
Il tema chiave della storia, il silenzio, viene già evocato a partire dai luoghi in cui si articola il racconto: l’hospice, poi il teatro, e ancora più avanti la chiesa, sono luoghi per loro natura dediti al silenzio. Già quando siamo in quel teatro, prima ancora che arrivi l’invasione aliena, ci troviamo a riflettere sul contrasto tra il dentro e il fuori, il teatro e la strada, il silenzio e il rumore. Sappiamo che certi posti e certi comportamenti ci salveranno la vita. Poco fuori il teatro, l’arrivo degli alieni, ironia della sorte, è annunciato proprio da dei rumori: il cielo è pieno di elicotteri, in strada è un continuo suono di sirene. E, anche se i suoni sono la chiave di tutto, dopo il primo, devastante arrivo degli extraterrestri in città, ci viene negata anche la vista: le strade sono coperte da una fitta coltre di polvere che non ci permette di vedere nulla.
Proprio quella polvere, tra le altre cose, ci spinge a una riflessione. A Quiet Place è per eccellenza un racconto di fantasia, fantascienza mista ad horror. Eppure ha degli appigli con la realtà che colpiscono. Quelle strade piene di polvere, e i volti delle persone ricoperti di grigio, sono quelli che abbiamo visto nelle foto seguenti agli attentati dell’11 settembre a New York, e queste immagini ci riportano immediatamente lì. Ma c’è un’altra tragedia che viene evocata dal film: gli inviti alle persone a stare a casa, e poi le strade deserte della città ci fanno venire in mente la pandemia di qualche anno fa. Per un tipo di film come questo, una tipica storia di immaginazione, questi legami con la realtà fanno la differenza: rendono tutto più vivido, sentito, vero.
Ma A Quiet Place: Giorno 1 è un film che funziona proprio come generatore di paura. Il fatto di aver portato la storia dell’invasione aliena al giorno 1 e in una grande città alza l’asticella del pericolo e degli ostacoli. Il nemico è appena arrivato e in tanti ancora non lo conoscono (il fatto che si capisca presto che hanno questo udito così forte e che non venga spiegato e forse l’unico difetto del film). In città, poi, capita che ci si trovi in tanti davanti al nemico e sia più difficile non fare rumore. Davanti alla paura c’è chi non riesce a non gridare, e con tante persone essere in pericolo è tremendamente più facile.
Ma Michael Sarnoski, il regista che ha raccolto il testimone da John Krasinski, regista e ideatore della saga (che qui firma la sceneggiatura con Sarnoski e Bryan Woods), trova delle chiavi di racconto interessanti. Come uno dei fili conduttori della storia, il gatto di Samira, animale silenzioso per eccellenza (quando vuole). O come uno degli espedienti per poter non solo parlare, ma anche urlare: sfruttare il rumore dell’acqua corrente, delle fontane e della pioggia, e poi quello dei tuoni, che coprono i nostri suoni e ci proteggono dagli alieni.
La saga di A Quiet Place si conferma allora vincente. Alla base ha un’idea forte: prende una delle cose più naturali che esistano nelle nostre vite – emettere suoni è come parlare, comunicare, respirare – e la rende un pericolo, portatrice di morte. Ricordiamo ancora, nel primo A Quiet Place, il personaggio di Emily Blunt alle prese con un neonato, una creatura impossibile da controllare se non ponendola in delle situazioni in cui i suoni non potevano arrivare all’esterno.
A Quiet Place: Giorno 1 riusce a rinnovare ancora la saga, e a fare il suo lavoro. È chiaramente cinema di genere, è intrattenimento. Ma se A Quiet Place volesse essere anche una metafora? Se volesse ammonirci sul valore del silenzio, sempre più prezioso in un mondo che fa troppo rumore, in senso letterale ma anche in senso lato? Si esce dalla proiezione del film anche facendosi queste domande, ed è merito anche della sceneggiatura.
È merito soprattutto dei due attori protagonisti, Lupita Nyong’o e Joseph Quinn, che avevamo conosciuto nei panni di Eddie Munson, personaggio cult di Stranger Things per il suo assolo metal nel mondo del Sottosopra. È la prima volta che lo vediamo dopo quel ruolo e ci ha convinto ancora. Entrambi gli attori hanno dei volti mobilissimi, liquidi, velati di sangue, di dolore e di paura. Eccezionali in quella scena teatrale verso la fine del film, sul palco di un pub deserto, in cui, non potendo parlare, si esprimono solo con il movimento del corpo e del volto, fornendo un ulteriore saggio della loro capacità attoriale. La storia di Samira continua fino allo struggente ed emozionante finale, sulle note di Feeling Good di Nina Simone. It’s a new dawn. It’s a new day. It’s a new life for me.
di Maurizio Ermisino