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The Animal Kingdom

The Animal Kingdom

In un futuro prossimo, misteriose mutazioni trasformano gli esseri umani in ibridi animali. Émile ha solo sedici anni e vorrebbe una vita normale: la scuola, le serate con gli amici, i primi amori. Ma d’un tratto si trova a fare i conti con alcuni inaspettati cambiamenti…

Tra azione e metamorfosi degne della saga degli X-Men, THE ANIMAL KINGDOM mette in scena con sorprendenti effetti visivi un’avventura emozionante e spettacolare, una storia sulla libertà e su tutto ciò che possiamo essere in grado di fare se abbracciamo la nostra vera natura.

Presentato in anteprima mondiale al 76° Festival di Cannes, scelto per la sezione Crazies del Torino Film Festival 2023 e vincitore di 5 premi César, tra cui Miglior Colonna Sonora per Andrea Laszlo De Simone e Migliori effetti speciali, THE ANIMAL KINGDOM di Thomas Cailley arriverà nei cinema italiani dal 13 giugno distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection.

INTERVISTA A THOMAS CAILEY

Dopo il successo di The Fighters – Addestramento di vita, come ti è arrivata l’ispirazione per The Animal Kingdom?

Il mio primo film inizia con un tono realistico e si sposta gradualmente verso il fantasy. Questa traiettoria non era prevista, si è manifestata mentre giravo il film, ma il potenziale del fantasy mi ha entusiasmato.
Durante la mia esperienza come giurato per la Fémis, ho letto una sceneggiatura scritta da Pauline Munier, in cui si parlava del tema dell’ibridazione tra uomo e animale. Ho avuto la sensazione che in quella metafora convergessero tutti i temi che volevo affrontare: la trasmissione, i mondi che vogliamo lasciare in eredità, quelli che ereditiamo, quelli che distruggiamo e quelli che, forse, restano ancora da inventare.
Quindi ho suggerito a Pauline di lavorare insieme alla regia. The Animal Kingdom racconta della relazione tra un sedicenne e suo padre, in un momento in cui, quasi ovunque nel mondo, viene a galla la “parte animale” degli esseri umani, come un gene latente che si risveglia offuscando il confine invisibile tra umanità e natura.

Cosa ti affascina della mutazione e dei mutanti che fungono da base per il tuo film?

Sarei tentato di dire che non mi interessa – io non vengo da quel tipo di cinema, non saprei nominare dieci film con mutanti. Tuttavia, vista l’attuale emergenza ecologica, credo che sia fondamentale inventare nuove storie che esplorino le nostre interazioni con le altre creature viventi, non con l’espediente dell’inevitabile collasso o dell’ennesima storia post-apocalittica, ma mostrando un impulso vitale, violento e generativo. Una nuova frontiera. L’idea della mutazione uomo-animale ci permette di affrontare la tematica da un punto di vista fisico, concreto, attraverso i corpi dei personaggi.
L’altra questione che mi interessava era portare questi cambiamenti nel mondo di oggi. Adoro Starship Troopers – Fanteria dello spazio di Paul Verhoeven e i film di Hayao Miyazaki, ma non volevo proiettare la mia storia in un futuro lontano o renderla un puro racconto. Tengo molto all’irruzione del fantastico nella nostra vita quotidiana. Questo attrito tra realtà e finzione è una fonte preziosa di empatia, di discrepanze, di turbamenti, di comicità.

Ed è un tema che viene introdotto presto nella storia: le creature fanno irruzione nella trama all’inizio del film e in modo totalmente inaspettato.

Il cambiamento c’è, è ovunque, e la società è costretta ad affrontarlo. In questo caso, fa addirittura di tutto pur di continuare a funzionare normalmente, evitando di mettersi in discussione.
Volevo assolutamente arrivare al nocciolo della questione fin dalla prima sequenza. Volevo introdurre, senza preparare lo spettatore, quella che diventa una nuova realtà per i personaggi del film. Da qui questa scena che ci è molto familiare di un ingorgo stradale in cui appare una creatura che semina il caos e che si conclude con il commento disinvolto di un automobilista: “Che tempi!”
Abbiamo iniziato a scrivere il film nel 2019. Poche settimane più tardi, si è diffuso il Covid e ci siamo trovati in isolamento. Gli avvenimenti di quel tempo hanno confermato le nostre intuizioni: ci abituiamo molto velocemente a qualsiasi cosa. Dopo qualche settimana, non ci stupiva più vedere branchi di cinghiali nei centri urbani deserti e rispettare costanti coprifuoco. La normalità era cambiata.

The Animal Kingdom costituisce una proposta abbastanza unica nel panorama del cinema francese, al contempo spettacolare e intima.

Ho concepito questo film come il precedente: partendo dai personaggi. Il tono e il genere si adattano alla loro missione, che è a sua volta fisica, sensoriale ed esistenziale.
Per me la coesistenza di dramma e commedia, azione e contemplazione, intimità e spettacolarità rende il film più inaspettato e vivo. Questo mix di generi è alla base della mia passione per il cinema.
In termini di riferimenti, mi sono rifatto a Un mondo perfetto di Clint Eastwood e Vivere in fuga di Sydney Lumet, così come a Thelma & Louise di Ridley Scott e The Host di Bong-Joon Ho. Sono film porosi, costruiti attorno ai loro personaggi, che privilegiano l’emozione e si svincolano dal genere (la fuga, il thriller) per offrire uno spettacolo totale.

È molto forte l’eco al dibattito sulla differenza, sugli “altri” che tanto spaventano alcune persone. Le creature mutanti del tuo film ricordano i migranti parcheggiati da qualche parte e poi respinti.

Sì, ma non solo. La mutazione rimanda alla differenza e al modo in cui la vediamo, come individui e come società, e gli stranieri sono una delle manifestazioni di questa differenza. Tuttavia, più in generale, nel film si parla di mettere in dubbio il concetto di normalità.
Il cinema ha spesso ripreso il tema dell’animalità in una forma di dualismo. Da un lato i film di mostri, dall’altro i film di super-uomini – lupi mannari e supereroi, forme di assoluta alterità che ci rassicurano riguardo al nostro posto nel mondo.
Qui è diverso, l’altro può essere chiunque: il mio vicino, mia figlia, un collega. I personaggi non si trasformano nelle notti di luna piena: la loro mutazione è lenta, progressiva. Camminano sul confine che ci separa dal “resto delle creature viventi”.
Se non esiste un’alterità assoluta, la questione cruciale diventa quella dell’appartenenza: come coesistere, convivere, formare una società?

Come hai detto, il film inizia con questo legame fortissimo tra François e suo figlio Émile, nell’assenza forzata di Lana, la madre di Émile, affetta dalla mutazione e quindi isolata. Il tema del rapporto genitore-figlio ti interessa personalmente?

Tra The Fighters – Addestramento di vita e The Animal Kingdom sono diventato padre e questo, ovviamente, ha cambiato molte cose. Molto presto è nato in me il desiderio di raccontare questa storia da un doppio punto di vista, quello del figlio e quello del padre, due figure maschili fallibili che si (re)inventano.
All’inizio del film, di fronte ai cambiamenti che stanno scuotendo il mondo e la sua famiglia, François si mostra forte, sicuro di sé: crede fermamente nella guarigione di Lana, nell’unità della sua famiglia, in un ritorno alla normalità. A questo punto, potremmo avere l’impressione che François ed Émile siano sulla stessa lunghezza d’onda, uniti nella stessa missione. In realtà, François impone al figlio la sua visione del mondo ed Émile soffre in silenzio. La sfida per Émile è emanciparsi e questo processo prenderà una piega inaspettata. È questione di diventare sé stessi, imparare a dire di no, scegliere il proprio destino. E mentre il figlio trova la sua strada, François perde le sue certezze e crolla. Si trova di fronte alla sua paura e alla sua impotenza, i ruoli si invertono. Sarà François a doversi interrogare. La trasmissione è avvenuta in entrambe le direzioni. Émile e François imparano a guardarsi. Si passa da uno squilibrio di forze a un rapporto di ascolto attento, di aiuto reciproco, di condivisione. È così che, per me, prendono vita gli eroi del cinema.
Questa è una cosa che mi ha particolarmente commosso in C’era un padre di Ozu: la vocazione di un padre è insegnare a suo figlio l’arte di imparare a vivere senza di lui. Non si tratta di cambiare o guarire l’altro, ma di accogliere e liberare forze sconosciute.

Una delle componenti essenziali del film è il posto che dai alla natura e il modo in cui hai filmato questi spazi quasi selvaggi delle Landes de Gascogne. Alberi, piante, acqua e cielo ricoprono un ruolo chiave sullo schermo.

Mi piace iniziare la scrittura con una fase di ricerca e con in mente un territorio specifico, dei vincoli geografici, una geografia concreta. Solo in seguito affronto la drammaturgia. Il piccolo paese di provincia circondato da un bosco immenso non è l’ambientazione di una storia, bensì quella della mia adolescenza.
Quando si attraversano le Landes de Gascogne, è facile ridurre il paesaggio a un susseguirsi di pinete e campi di mais. Ma in mezzo a questo territorio trasformato dall’uomo si trovano delle oasi naturali, gli ultimi ettari di foresta vergine invasa dalle lagune.
Sono luoghi magici, rimasti immutati per centinaia o addirittura migliaia di anni, risalgono a molto prima dell’inserimento diffuso dei pini. Questi spazi sono scarsamente documentati e difficili da raggiungere, ma quando ci si arriva, è come fare un salto nel tempo. In poche centinaia di metri si passa da un campo di alberi allineati, una silenziosa foresta industriale, a spazi ricchi e disordinati dove brulicano fauna e flora. La foresta riprende vita davanti ai nostri occhi.
Volevo dare il loro spazio a questi paesaggi, come un continuum narrativo, perché da soli quasi raccontano il viaggio dei personaggi.

Come sei riuscito ad accedervi, visto che, a quanto pare, sono estremamente complicati da localizzare?

Con vari mezzi: vecchie mappe, blog di appassionati di alberi che elencano vecchi esemplari. E lo studio delle immagini satellitari: un lavoro tedioso volto a identificare tutte le macchie nere in un’area che comprende la Gironda, le Landes e parte del Lot e Garonna. Il più delle volte si trattava di un bacino artificiale, ma a volte di una laguna millenaria; quindi, bisognava sempre andare a controllare sul posto. Era come una caccia al tesoro.

Ho esplorato in lungo e in largo la regione con mio fratello, David Cailley, il direttore della fotografia del film, finché non abbiamo trovato l’ambientazione ideale. C’era tutto: la foresta vergine, la laguna, un albero proteso sull’acqua necessario al racconto.
Ma proprio nel bel mezzo delle riprese, nell’estate del 2022, tutto è andato distrutto a causa dei terribili incendi scoppiati in Gironda. Il film ha subito una battuta d’arresto, la troupe è andata via e io sono rimasto sul posto sotto una pioggia di cenere a cercare location alternative per finire il film. Mancavano ancora 5 settimane di lavoro da girare interamente nella foresta.

Ma alla fine ce l’hai fatta.

Sì, è stato un piccolo miracolo. Ho notato una macchia nera su un’immagine satellitare vicino a Biscarrosse, una località balneare molto turistica che, sulla carta, non corrispondeva affatto a ciò che cercavamo. Lungo il percorso ho scoperto un insieme di lagune completamente preservate, dove la selvicoltura è vietata da decreti risalenti al Medioevo.
Era il posto perfetto per noi: una foresta fitta, un’atmosfera originale, una topografia non uniforme in cui ci vuole un quarto d’ora per percorrere 100 metri! Un regalo inaspettato nel mezzo del disastro degli incendi del 2022.

Dover interrompere le riprese durante l’estate e riprenderle in autunno ha portato ad avere luci differenti. E la luce è essenziale in The Animal Kingdom. Questo ha anche cambiato il tuo approccio al film?

Certo, ha cambiato tutto. La luce di settembre non è più quella di luglio-agosto, le giornate sono più corte, il rischio di pioggia è maggiore. Ma offre anche contrasti interessanti, è una luce più viva, radente, con meno foschia di quella estiva. Abbiamo dovuto rivedere a fondo il piano di lavoro per adattarci alla luce e alle condizioni atmosferiche. Abbiamo dovuto gestire anche il cambiamento della vegetazione. In questo periodo, il sottobosco rosseggia e avvizzisce – fenomeno, peraltro, accelerato dall’ondata di calore. A settembre non era rimasto molto. Quindi, abbiamo cercato innanzitutto delle zone il più vicino possibile all’acqua, dove le radici erano ancora idratate, e gli scenografi hanno poi dovuto rinverdire alcune piante piano per piano, dove era essenziale.

Gli effetti speciali ricoprono un ruolo importante nel film, ma sono sempre al servizio della trama e non il pretesto per una dimostrazione tecnologica.

Sì, i personaggi devono restare al centro della progettazione e della regia. Per questo abbiamo imposto tre regole fondamentali:
– Partire dall’attore; girare al massimo delle abilità secondo le sue capacità. – Aderire al punto di vista dei personaggi; niente punti di vista liberi. – Girare in ambienti reali; niente studi o green screen.
Diciotto mesi prima dell’inizio delle riprese, ho cominciato il lavoro di progettazione per capire come sarebbero state le nostre “creature”, come progettarle e realizzarle. Questo lavoro è continuato fino alla fine della produzione.
Il nocciolo della questione è stata la scelta della tecnologia. Ognuna ha i suoi vantaggi: il trucco li ha per la trama, l’animazione per il movimento, gli effetti scenici per le interazioni con l’arredamento, ecc. Abbiamo ibridato il più possibile le tecniche perché la credibilità di un effetto dipende molto dalla sua costante “mutazione” all’interno della sequenza stessa. Se si usa sempre lo stesso procedimento, l’occhio dello spettatore lo scova dopo pochi secondi.
Così, ad esempio, il personaggio di Fix, interpretato da Tom Mercier, viene costruito con trucco (protesi, pelle), animatronica, effetti scenici (rivestimenti, cavi), effetti digitali (3D). Il mix tra queste diverse tecniche è diverso per ogni ripresa.

Un altro elemento importante del film è l’imponente lavoro sul suono, soprattutto nell’ultima parte in cui Émile scopre davvero la foresta e coloro che la abitano.

Volevo un approccio coinvolgente, il più vicino possibile ai personaggi. Anche qui siamo partiti dagli attori. Abbiamo conosciuto dei “cantanti di uccelli” che hanno sviluppato tecniche uniche per interpretare, imitare e persino interagire e comunicare con gli animali. Hanno formato Tom Mercier, gli hanno insegnato a “parlare come un uccello”, aspirando i suoni e non più proiettandoli – cosa che richiede uno sforzo colossale a livello di cassa toracica e gola – e Tom ha fatto pratica per mesi: tutto quello che sentiamo nel film viene da lui.
Paul Kircher ha sviluppato con loro delle tecniche di respirazione e ha esplorato un’ampia gamma di suoni, grugniti e urli. Questa materia prima è stata rielaborata nel montaggio del suono e abbiamo esplorato le chimere sonore, in modo, a volte, molto tecnologico e, a volte, molto artigianale, come è sempre stato nella pratica del cinema (ad esempio, il famoso grido di Tarzan è stato realizzato mixando il verso di una iena e uno jodel austriaco).

Hai chiesto ai tuoi attori un investimento molto importante, sia a livello fisico che psicologico.

Alcuni ruoli hanno richiesto molta preparazione fisica. È raro per un ragazzo essere presente in quasi tutte le inquadrature di un film, con tanto di scene di azione, avventura ed emozione, giorno e notte, per più di 60 giorni. Paul ha lavorato tantissimo e con grande rigore. Le riprese sono state precedute da un lungo lavoro con un coreografo per esplorare il suo linguaggio del corpo, i suoi movimenti e la sua percezione del mondo che lo circonda.

E lo stesso è stato per il personaggio di Tom Mercier, un uomo-uccello il cui stadio di mutazione è molto avanzato. Abbiamo dovuto modellare e scansionare il suo corpo, costruirgli delle ali protesiche articolate e dargli una nuova pelle, pigmentata come un uccello e parzialmente piumata. Oltre
a passare sei ore al trucco ogni giorno, Tom si è sottoposto a duri allenamenti di salto e a varie sessioni di stretching, scolpendo in maniera incredibile il suo corpo fino a modellarlo come quello di un ballerino.
Per fortuna, anche sul set siamo sempre tornati al principio di centralità del lavoro dell’attore, qualcosa che rimanda alle origini del piacere di recitare, all’infanzia: travestirsi, giocare a essere altro, qualcosa di diverso dall’umano, inventare il proprio animale, correre, saltare, urlare, volare. Le riprese hanno avuto anche questa dimensione ludica e catartica.

Parliamo della scelta degli attori, a cominciare dalla coppia padre-figlio, François-Émile, ovvero Romain Duris-Paul Kircher.

Non esagero quando dico che ho scoperto il cinema francese con Romain. Le Péril jeune, Gadjo dilo – Lo straniero pazzo sono tra i film francesi che più hanno segnato la mia adolescenza.
È anche un attore affascinante, che dà al ruolo di padre un’interpretazione molto forte. Emana una certa luce, uno splendore e un contagioso e stimolante piacere di recitare. La sua capacità di lavoro e di ascolto è impressionante, la sua comprensione delle problematiche e le sue emozioni sono molto istintive.
François è un personaggio completo, ha qualcosa di assoluto, di romanzesco. Ed è anche un ruolo fisico. Qualità, queste, che Romain possiede. François agisce costantemente, non getta mai la spugna. Romain gli ha dato velocità, precisione, una fisicità purissima.
Quanto a Paul, dà l’impressione di esser forte e goffo allo stesso tempo e la cosa mi ha subito affascinato. Ha anche capacità inaspettate. A volte sembra che non sappia dove sta andando, che stia galleggiando, invece è mosso da correnti profonde, forti e tranquille. Paul mi ha dato l’impressione di non essere consapevole del suo potere, ma si sente che dentro di lui ribolle qualcosa, un’energia indomabile, un lato selvaggio.

Una parola anche sul personaggio interpretato da Adèle Exarchopoulos, che ci permette di parlare di umorismo, molto presente in The Animal Kingdom.

Parte del lato comico deriva dal fatto che molti dei personaggi lottano per vivere il più normalmente possibile in un mondo impazzito. Julia è forse la persona meno illusa da questo grande sconvolgimento.
Vorrebbe essere utile, trovare il suo posto, ma la sua squadra viene emarginata nel momento peggiore. Lo scarto tra lei e i suoi colleghi è talmente ampio che quando dice “Esigo la mutazione”, ci si potrebbe chiedere di che tipo di mutazione stia parlando – gli umani intorno a lei le sono sempre più estranei. Adèle è un’attrice straordinaria, dona a questo personaggio autonomia, umorismo, innegabile sicurezza e, allo stesso tempo, grande comicità.
Nel complesso, le creature portano disordine nella società – dall’attacco al centro equestre all’irruzione di un calamaro gigante nel supermercato Super U. Questi eventi hanno un risvolto comico, ma anche uno slancio di vitalità – come se delle voci che erano state messe a tacere parlassero di nuovo. Il mondo si muove di nuovo. L’umorismo è, per me, il modo migliore per rendere palpabile questo impulso vitale, sia distruttivo che creativo.

Hai raggiunto la fine di una vera avventura cinematografica. Come guardi a questa esperienza ora che stai lasciando che il tuo film viva la sua vita con il pubblico?

È una sensazione piuttosto strana. Questo film ha costretto tutti e tutte a inventare, combinare tecnologie complesse, anticipare o affrontare sfide proteiformi, che hanno spaziato dal far volare un essere umano in una foresta di notte al continuare le riprese nel bel mezzo di una catastrofe naturale.
La strada è stata lunga, ma siamo arrivati a destinazione e non ho vergogna nel dire che ne siamo orgogliosi e felici. Credo che, in fin dei conti, il film assomigli molto al suo soggetto: è mutato costantemente per crearsi la propria strada. Spero che il pubblico lo percepisca guardando The Animal Kingdom. La storia si apre con i volti di François ed Émile bloccati nel traffico, circondati da clacson e inquinamento. Si chiude un anno dopo sugli stessi volti, legati più che mai, in mezzo a una foresta ormai abitata da tutte le specie animali del mondo. In queste due immagini, nel loro viaggio, spero che si senta il risveglio di un potere dentro di noi, un legame misterioso e organico che ci collega a tutte le creature viventi.

Copyright:
LE RÈGNE ANIMAL_© 2023 NORD-OUEST FILMS – STUDIOCANAL – FRANCE 2 CINÉMA – ARTÉMIS PRODUCTIONS / Photographe : IVAN MATHIE

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