“Oggi più che mai siamo vicini alla vittoria. Qualcuno già la definisce la più grande vittoria del genere umano”. A parlare è un immaginario Presidente degli Stati Uniti d’America, nella prima scena dell’inquietante Civil War, il nuovo film di Alex Garland, uno dei grandi film di questa stagione cinematografica, in arrivo in sala il 18 aprile. La vittoria che sta annunciando il Presidente non è contro una nazione straniera, ma contro una serie di stati ribelli che si sono staccati da Washington. Sì, gli Stati non sono più Uniti, ed è proprio questo a colpire prima di ogni altra cosa. La nazione che siamo stati sempre abituati a vedere come granitica si sta sfaldando all’interno. E la cosa suona sinistra ma nemmeno troppo sorprendente, visti i fatti che, negli ultimi anni, in USA hanno messo in dubbio l’idea stessa di democrazia. Ma l’attualità del film è solo uno dei tanti motivi di interesse per un film che tiene incollati alla sedia, fa pensare, e lascia il pubblico, anche a distanza di giorni, con una serie di domande in testa.
Il film inizia a New York, un città scossa dalle rivolte, dalla sete e dalla fame. E dalle bombe che ancora continuano a cadere. La città è senza energia, non funziona il wi-fi. I cadaveri, sulle strade, si contano. Ma è solo l’inizio del viaggio. Quattro giornalisti, infatti, capiscono che la storia non è quella che sta raccontando il Presidente. Che Washington sta per cadere. E che l’unica storia ancora da raccontare è quella: l’ultima intervista al Presidente prima della sua sconfitta. E l’ultima foto. Così, da New York, i quattro si mettono in macchina. Lee (Kirsten Dunst) fotoreporter navigata, stanca e disincantata, e Jessie (Caille Spaeny), giovane fotografa entusiasta, ingenua ma determinata, partono insieme a Joel (Wagner Moura), giornalista, e Sammy (Stephen McKinley Henderson), il veterano della truppa, il rappresentante del vecchio giornalismo.
Alex Garland, che prima che come regista avevamo conosciuto come sceneggiatore dell’horror 28 giorni dopo, non ci risparmia niente a livello di immagini. Corpi sventrati dalle bombe, persone legate e torturate, lasciate appese a un filo – letteralmente e metaforicamente – tra la vita e la morte. Ma Garland non indugia troppo in queste immagini shock, non è questo che gli interessa. In realtà è come se, idealmente, girasse l’obiettivo della macchina da presa per puntarlo non verso quello che accade ma verso chi lo sta guardando e lo sta documentando. L’occhio di Garland è verso i giornalisti, i fotografi, verso chi racconta. Civil War, allora, è u film sul giornalismo, sui reporter di guerra. E, in senso più allargato, anche un film sui media e sulla figura del regista, su chi sceglie le immagini e decide di diffonderle. Che cosa mostrare? Fino a dove mostrare? Quando fermarsi?
“Perché non gli ho detto di smettere?” si chiede la giovane fotoreporter Jessie. “Se iniziamo a farci queste domande smettiamo di fare questo lavoro. Noi non facciamo domande: documentiamo i fatti perché altri facciano domande” risponde la reporter navigata Lee. In questo scambio di battute c’è tutto il senso di chi fa il lavoro di inviato di guerra e, in senso più ampio, di chi si occupa di immagine e di informazione. Per chi fa un certo lavoro si tratta di sospendere le emozioni, di sospendere il giudizio. Rimanere freddi, distaccati. Solo così si può tenere la giusta distanza, e raccontare quello che si vede.
Civil War racconta anche lo stridere della guerra con la vita normale. Guardate, ad esempio, all’arrivo in quel paesino dove tutto sembra essere a posto e la guerra non essere passata affatto, tanto che è possibile entrare in un negozio e provarsi un vestito. O guardate quanto sembrano essere beffarde quelle decorazioni e quelle canzoni di Natale in mezzo alle sparatorie. Così, dopo anni in cui, al cinema e nella vita reale, siamo stati abituati al contrario, è straniante sentire, in un dialogo, queste parole: “Siamo americani”. “Non vuol dire più niente. Americani di dove?”
Civil War è tante cose insieme, è un war movie, un survival movie, un road movie. È anche un ritratto sociologico, un’operetta morale. L’uomo che, mimetizzato e a terra, sta sparando contro una casa al di là di un prato, senza sapere contro chi sta combattendo, è una metafora delle guerre di oggi. Quelle che, dall’11 settembre 2001 in poi, sono diventate sempre più complicate, e dirette a nemici senza uno stato e senza una bandiera.
Gli Stati non sono più Uniti nel film di Alex Garland, dicevamo. Ed è proprio portare la guerra, la lotta fratricida e dilaniante in dei luoghi che abbiamo sempre considerato, al loro interno, sicuri, civili, democratici (con sempre più crepe man mano che passava il tempo, certo) a rendere tutto più inquietante e più duro, più evidente. Così come faceva colpo che una dittatura prendesse piede nel Paese dei diritti, in quel che restava degli Stati Uniti, in distopie come Hunger Games e The Handmaid’s Tale. A differenza di quelle storie, però, qui non sappiamo neanche le cause di questa guerra, ne vediamo solo gli effetti.
Alex Garland si conferma un artista che, tra scrittura e regia, sa spaziare tra horror, avventura, fantascienza e war movie, tra utopia e distopia. Ha la capacità di immaginare mondi, di costruirli, di metterli in scena con un talento visivo fuori dal comune. Il suo è uno sguardo immaginifico, ma sempre ancorato al reale, spostato nel futuro, ma mai troppo avanti. In modo che tutto, seppur fantastico, immaginario, risulta pienamente credibile. E se l’incredibile diventa credibile, le nostre paure diventano terribilmente reali.
di Maurizio Ermisio
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