“L’amore è un giro in slitta per l’inferno”. È una scritta che campeggia sul cofano di una macchina, una vecchia Dodge Aries, che è al centro di Drive-Away Dolls, il nuovo film di Ethan Coen (la metà dei premiati Fratelli Coen), in uscita al cinema il 7 marzo (in un’inedita formula che prevede solo la versione in lingua originale con sottotitoli). Siamo a Philadelphia, nel 1999. Un uomo ha con sé una valigetta con qualcosa di molto importante. Esce da un sordido bar, e viene inseguito e ucciso. Quel grido di dolore, di colpo, con un taglio di montaggio, diventa il grido di un orgasmo. Così ci troviamo in una camera da letto, dove due ragazze stanno facendo amabilmente sesso. Inizia così, in un modo che non può lasciare indifferenti, Drive-Away Dolls, e queste prime sequenze rendono l’idea di quello che sarà tutto il racconto. È un film che merita una chance: è brioso, divertente, veloce, si gode in fretta (e si dimentica in fretta dopo la visione, va detto) e ribadisce il ruolo di nuova star del cinema americano di Margaret Qualley. È la figlia di Andie MacDowell, e somiglia molto alla madre. Ma probabilmente dal prossimo film ormai non lo diremo più. Sarà solo Margaret Qualley.
Drive-Away è una formula molto particolare di noleggio, un noleggio di sola andata. È così che Jamie (Margaret Qualley), che ha appena lasciato la sua fidanzata, e Marian (Geraldine Geraldine Viswanathan), la sua amica timida e morigerata, decidono di viaggiare per cambiare aria, e partire verso Tallahassee, Florida. “L’amore è un giro in slitta per l’inferno” è la scritta che campeggia sul cofano posteriore dell’auto. E sembra essere un presagio per quello che capiterà alle due ragazze. Quella macchina, infatti, era stata prenotata da un’altra coppia, due sgangherati sgherri di un gangster, perché nel bagagliaio ha un contenuto molto particolare. Sulle tracce delle due ragazze, allora, si mettono questi improbabili criminali.
Il più classico dei MacGuffin, lo scambio casuale di un oggetto – in questo caso la macchina, e la misteriosa valigetta nel bagagliaio – è lo stratagemma per scatenare la storia di Drive-Away Dolls, un film che è un road movie e un gangster movie, ma in fondo è un romanzo di formazione e una storia d’amore. C’è un po’ di tutto dentro questo film, tante storie e tanti temi, tenuti insieme dall’unità stilistica. Che è quella di un film dichiaratamente indie, low budget, che se fosse un album musicale chiameremmo low-fi. Il cinema dei Fratelli Coen c’è, per genere e situazioni, ma qui è tutto meno patinato, costruito, codificato, perché il cinema di Joel ed Ethan era ormai un genere a sé. Qui tutto è più “sporco”, a tratti lisergico, volutamente trasandato.
Drive-Away Dolls è un film più libero, sfrenato, sfrontato, sboccato rispetto al cinema che siamo soliti associare ai Fratelli Coen, il che lo rende sicuramente un’opera fresca. Ma, d’altra parte, è anche meno intenso e denso a livello di scrittura, un elemento che assicurava sempre uno status autoriale e colto ai film del duo. Ha la freschezza e la libertà di certe opere prime, e in qualche modo lo è, perché Ethan Coen, che nel duo faceva lo sceneggiatore e il produttore, è di fatto alla sua prima regia. Qui sceglie di portare la storia in ambienti sordidi, a volte illuminati da luci al neon, a volte lasciati nel loro squallore.
Tutto, qui, ha una patina di cinema indipendente anni Novanta, che poi vuol dire cinema degli anni Settanta rivisitato. E così la regia usa gli zoom in avanti e all’indietro, certi movimenti di macchina bruschi, mentre la fotografia ricopre tutto di quella inconfondibile patina calda e uniforme sui toni del marrone. Per alcune situazioni, a tratti potrebbe sembrare un film del primo Tarantino. Certe sparatorie ci fanno pensare a Le Iene, ma, soprattutto, è quella valigetta che ci fa pensare a Pulp Fiction. Nel film di Tarantino il contenuto della valigetta non lo vediamo mai. Qui lo vediamo, forse troppo presto, ed è un’altra sorpresa, un altro piccolo shock, un’altra stilettata verso il comune senso del pudore.
Drive-Away Dolls è un film spassoso, intriso di girl power e orgoglio LGBTQ+ (merito della co-sceneggiatrice Tricia Cook, moglie del regista e sostenitrice di queste tematiche). È godibilissimo, anche se, come dicevamo, dopo averlo visto crediamo lo dimenticheremo piuttosto facilmente. Chi non dimenticheremo è sicuramente Margaret Qualley, ancora una volta perfettamente centrata nel ruolo e sempre diversa da se stessa e dagli altri ruoli. La sua dolce sfrontatezza, l’espressione furbetta, gli inconfondibili riccioli neri tagliati più corti, in un caschetto, proiettano l’attrice in una dimensione nuova, rock e Generazione X, quasi una versione sfrenata della Winona Ryder di Giovani, carini e disoccupati. Dalla prima scena all’ultima, dal sesso all’amore, la nuova star anche qui lascia il segno. E allora, alla fine, la prospettiva cambia. E così, “l’amore è un giro in slitta. Partiamo”.
di Maurizio Ermisino
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