“Non è che in questo Paese può finire sempre tutto a tarallucci e vino”. È Betta, che ha il volto di Raffaella Lebboroni, a dire queste parole in una scena chiave de Un altro Ferragosto, il nuovo film di Paolo Virzì, scritto insieme a Francesco Bruni e Carlo Virzì, seguito molto particolare del film cult Ferie d’agosto del 1996, in uscita al cinema dal 7 marzo. In quella frase c’è tanto dell’Italia di oggi, c’è quel lasciar correre tante cose che non vanno, c’è quell’aver dimenticato tanti valori, tanti ideali. Ferie d’agosto era riuscito a raccontare mirabilmente l’Italia degli anni Novanta, quella bel bipolarismo, quella spezzata in due, destra e sinistra. Un altro Ferragosto prova ad affrontare l’impresa impossibile di raccontare l’Italia di oggi, molto più confusa, sfibrata, frastagliata. All’inizio sembra non riuscire a farcela, ma miracolosamente ci riesce, ancora una volta, alla grande. Andiamo a vedere questo film, mettiamoci davanti al grande schermo. Sarà come guardarci allo specchio. Quelli di un altro Ferragosto siamo noi. Siamo noi oggi.
In una sera d’agosto del 1996, nella casa di Ventotene dove il giornalista Sandro Molino (Silvio Orlando) trascorreva le vacanze, la sua compagna Cecilia (Laura Morante) gli rivelò di essere incinta. Oggi Altiero Molino (Andrea Carpenzano) è un ventiseienne imprenditore digitale e torna a Ventotene col marito fotomodello per radunare i vecchi amici intorno al padre malandato e regalargli un’ultima vacanza. Non si aspettava di trovare l’isola in fermento per il matrimonio di Sabry Mazzalupi (Anna Ferraioli Ravel) col suo fidanzato Cesare (Vinicio Marchioni): la ragazzina goffa figlia del bottegaio romano Ruggero (il capofamiglia che era interpretato dal compianto Ennio Fantastichini) è diventata una celebrità del web, un’influencer, e le sue nozze sono un evento mondano che attira i media (certi programmi tv del pomeriggio) e anche misteriosi emissari del nuovo potere politico. Ritroviamo così due tribù di villeggianti. Sono quelle di prima, ma sono diverse. Sono due Italie apparentemente inconciliabili, forse ancora più distanti di prima. E sono destinate ad incontrarsi di nuovo a Ferragosto, per una sfida stavolta definitiva.
Sì, era più semplice raccontare l’Italia degli anni Novanta, quella della Seconda Repubblica, del bipolarismo, della destra e della sinistra. Ora è tutto più sfumato, più labile, in continuo divenire e per questo inafferrabile. Non ci sono più i valori, non ci sono più le ideologie, si dice: non ci sono più, ma in qualche modo ci sono ancora ed è questo che ci dice il film. Era più facile raccontare gli schieramenti di una volta: da una parte c’era il Generone romano, il bottegaio d’armi di Ruggero di Ennio Fantastichini, dall’altra l’intellettuale Sandro, giornalista de L’Unità di Silvio Orlando. Ora i cafoni sono diventati gli influencer, e servono a raccontarci un Paese (ma tutto il mondo è Paese) dove ormai chi è senza talento arriva in alto, e forse più in alto degli altri. Anche in politica. Dove il fascismo non è neanche più un tabù, ed è anche ostentato senza che ormai faccia più scalpore (ricordate cosa diceva Zerocalcare in Questo mondo non mi renderà cattivo?).
Virzì, in ogni caso, ne ha anche per l’altra parte, per gli intellettuali che sembrano vivere ormai troppo nel passato e non riescono a cogliere il senso dell’oggi, il contatto con la gente. Che sembrano aver rincorso la vita a parlare di ideali ma che non sono capaci di ascoltare davvero chi hanno vicino. Perché, come sembra volerci dire Virzì, forse oggi la realizzazione non può che essere nel nostro privato più che nel politico, anche per chi ha sempre pensato il contrario. Virzì mette alla berlina, con dolcezza, anche certe manie e istanze dei millennial, come l’essere attenti a cosa si mangia (la scena di Noah, il marito di Altiero, e il polipo). O, ancora, a quegli uomini di cinema che fanno film senza pensare al pubblico e pensano ai festival senza star e red carpet…
Guardate le persone che sbarcano a Ventotene. Siamo noi, sempre con lo smartphone in mano, sempre puntato verso tutto quello che vediamo. Guardiamo tutto attraverso lo schermo e la fotocamera prima che attraverso i nostri occhi, fotografiamo e instagrammiamo (termine orribile, sì…) prima ancora di vivere. Siamo alla perenne ricerca di una connessione. Ma non quella tra di noi: la connessione wi-fi per fare le live, le call, per condividere. Ovviamente on line. Un altro Ferragosto, oltre che un saggio politico, è un potente saggio antropologico. Come lo era d’altra parte Ferie d’agosto.
Virzì, Bruni e Virzì sono bravissimi a cogliere lo spirito dei tempi, e di infarcire i dialoghi di quella cultura pop e di quei temi di conversazione (oggi si direbbero gli hashtag) che vanno per la maggiore. Così sentiamo dire “pensati libera”, sentiamo parlare del matrimonio dei Ferragnez, si fa riferimento a Elly (Schlein) e si parla anche di “grillini”, ma quello pare già un termine di qualche anno fa. Che poi il film sia uscito proprio durante il caso della separazione dei Ferragnez non è un caso, è lungimiranza.
Un altro ferragosto è un film dove i presenti fanno a gara di bravura. Non parliamo nemmeno dei grandi, come Silvio Orlando, Laura Morante e Paola Tiziana Cruciani (è Luciana, la vedova di Ruggero Mazzalupi). A sorprendere è Anna Ferraioli Ravel, nei panni di Sabry Mazzalupi, ragazza insicura e senza qualità che, nonostante l’effimero successo social, è destinata a rimanere tale, e sembra uscita da un film italiano di tanti anni fa. Così come sono eccezionali Vinicio Marchioni, nei panni di un coatto fascistello tanto fumo e niente arrosto, ed Emanuela Fanelli, (ex) sposa in nero enigmatica e perennemente imbronciata che trattiene trattiene e poi esplode (e, attenzione, racchiude un altro dei drammi del nostro tempo). Così come Raffaella Lebboroni dona empatia a ogni personaggio interpreti. Un altro Ferragosto è un film dove in alcuni casi la famiglia è reale: Agnese Claisse, che interpreta Martina, è davvero la figlia di Laura Morante, come nel film, e così Massimo Mazzalupi, il figlio di Ruggero, è interpretato da Lorenzo Fantastichini, il figlio del grande Ennio.
Ma un altro Ferragosto è un film che si prende anche cura degli essenti, di chi non c’è più, come se fosse La camera verde di truffautiana memoria. Il senso di affetto, di pietas per Ennio Fantastichini e Pietro Natoli, rievocati da foto, sequenze, canzoni (risuona Tu sei l’unica donna per me, che Natoli cantava nel primo film) è qualcosa che ci accompagna per tutto il film con una grazia che raramente abbiamo visto al cinema. Per questo Un altro Ferragosto è un film sul lasciare andare, sul passare del tempo e sulla necessità di accettarlo. “I posti sono cambiati, ma anche noi siamo cambiati”, sentiamo dire. E vale per tutti. Per questo quello di Virzì è un film definitivo, commovente, valoriale.
E quando, in un paio di sequenze oniriche, vediamo apparire un giovane Sandro Pertini, partigiano, non ancora presidente, tutto torna. Da un lato dimostra che ormai c’è un VirzìBruniVerse, perché Pertini ci rimanda anche al film Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni. Dall’altro è un momento altissimo, perché Pertini ci fa pensare alla lotta partigiana ma anche alla sua presidenza e alla finale dei mondiali di calcio del 1982: due momenti in cui nel nostro Paese c’era unità d’intenti, unità nazionale, valori condivisi. “Non ci prendono più” disse Pertini a un certo punto di quell’Italia-Germania. E quando lo ripete Silvio Orlando, quel “non ci prendono più” sembra riportarci il sogno di un Paese unito e libero, capace ancora di sognare un futuro migliore. È anche per questo che Un altro ferragosto è commovente. Proviamo a dirlo tutti insieme, come un urlo liberatorio. “Non ci prendono più”!
di Maurizio Ermisino
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