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La zona d’interesse: la banalità del Male secondo Jonathan Glazer

La zona d’interesse: la banalità del Male secondo Jonathan Glazer

La banalità del male è il titolo di un famoso libro di Hannah Arendt, incentrato sul processo a un gerarca nazista. Arendt parlava di banalità del male perché i funzionari nazisti erano proprio così, terribilmente banali, normali, ma in grado di incredibili atrocità solo perché non si fermavano a riflettere sugli ordini che venivano loro dati. La banalità del male potrebbe essere il titolo alternativo de La Zona d’interesse (The Zone of Interest), il film di Jonathan Glazer, Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e finalmente in arrivo nelle sale italiane il 22 febbraio. Il film è candidato a 5 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior film in lingua straniera, oltre a regia, sceneggiatura non originale (il film è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis) e miglior sonoro. Uno sonoro che, come vedremo, ha un ruolo fondamentale.

Che La Zona d’interesse sia un film diverso da tutti gli altri lo capiamo da subito. Lo schermo è a nero per vari minuti. Non vediamo niente, ma sentiamo una serie di suoni inquietanti e disturbanti. Quando, finalmente, le immagini compaiono sullo schermo, vediamo scene idilliache di serenità e calma, quelle di una giornata di una famiglia sulle rive di un fiume. Ma, quando l’inquadratura si allarga, si scorge qualcos’altro. Una torre di vedetta. E poi un muro, e un filo spinato. Vedremo anche una ciminiera. In queste prime immagini c’è già tutto il senso de La Zona d’interesse.

Una famiglia tedesca apparentemente normale cerca di costruire una vita perfetta in un luogo apparentemente da sogno. Vivono in una bucolica casetta con piscina, e la loro quotidianità è fatta di gite in barca, del lavoro d’ufficio del padre, dei tè della moglie con le amiche, fino a quelle tranquille domeniche passate a pescare al fiume. Ma l’uomo in questione sia Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz. E quella deliziosa villetta con giardino in cui vive con la sua famiglia in una surreale serenità si trova proprio al confine con il tristemente noto campo di concentramento. Quella famiglia così si trova a due passi dall’orrore. Allo stesso tempo così vicino e così lontano.

Di quello che accade immediatamente al di là del muro di quella villetta vediamo davvero poco, come vede poco la famiglia di Höss. Ma per tutto il film siamo attraversati da un costante senso di inquietudine. E non solo perché noi sappiamo. Ma anche perché la tranquilla vita in quella villetta, è accompagnata continuamente da una serie di rumori. Rumori meccanici, industriali, ripetitivi e ricorrenti.

Tutto, ne La Zona d’interesse, è straniante. Quel giardino è verde, piccolo, potrebbe essere uno di quei giardini delle case in cui giocavamo anche noi da bambini. Eppure lo vedi che non è normale, circondato da quel muro grigio e alto, che non è quello che si solito delimita un giardino. Vedi delle persone – i reclusi nei campi di concentramento – che si aggirano come spettri per fare da servitori in quella casa. Assisti ai discorsi delle mogli, durante i tè che allietano le loro giornate, e le senti parlare di vestiti, abiti tolti alle donne ebree da riparare e tenere per sé, come se niente fosse. E quei gerarchi nazisti che si riuniscono sempre in quella casa, parlano di forni crematori come se parlassero di un impianto di riscaldamento. Come se tutto questo fosse normale.

La Zona d’Interesse è un film straordinario proprio perché, nella sua sostanza ma anche nella forma, coglie il senso del mistero del nazismo. Cerca cioè di capire come tutto quello che è accaduto, il Male nelle sue forme più subdole e incredibili, abbia potuto convivere con la normalità, e con l’approvazione, o il tacito accordo, di un intero popolo, un’intera nazione. Il non aver saputo intervenire, il non essere riusciti a porre dei dubbi, a opporre resistenza. In un solo concetto, che è quello al centro del film, il riuscire a convivere con la tragedia. La rimozione della famiglia Höss è quella di un intero popolo.

Jonathan Glazer, che ci aveva inquietato sin dai suoi esordi, con i videoclip di Karma Police dei Radiohead e Rabbit In Your Headlights degli UNKLE, e poi con film come Birth – Io sono Sean, racconta tutto questo con un film unico, mai visto prima. La Zona d’interesse è un film freddo, glaciale, ipnotico, insinuante. È una storia dove i personaggi pian piano sentono la nevrosi di vivere in quella normalità apparente, e cominciano, ognuno a modo suo, a crollare.

Alla messinscena fredda di Glazer, a una sceneggiatura in cui apparentemente sembra non accadere niente e invece accade tutto, contribuiscono un lavoro eccezionale sulla colonna sonora e il sound design (la nomination all’Oscar non è un caso). I rumori sono continui, disturbanti, e oltre a far capire che al di là del muro sta accadendo qualcosa, sono anche il simbolo della scissione delle persone che, da vicino o da lontano, hanno vissuto il nazismo. Un apparente senso di normalità all’esterno, un più o meno conscio senso di disturbo latente. Quei rumori di fondo, man mano, cambiano. Si cominciano a sentire delle urla lì fuori. E restare indifferenti è impossibile. Lo schermo, alla fine, diventa rosso. E anche questo ha un senso.

Zone Of Interest_Cannes Image.jpg
Credit: Courtesy of A24

di Maurizio Ermisino

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