Siamo durante la Seconda Guerra Mondiale. Una donna e una bambina sono alla mercé di un ufficiale nazista. Lui spara alla donna, mentre la bambina viene salvata da un soldato americano. Le immagini sono in bianco e nero, sono quelle di un film neorealista. Ma l’immagine di allarga e, mentre sullo schermo arriva la parola fine, capiamo che è un film, Sacrificio, e siamo in un cinema di Roma negli anni Quaranta, subito dopo la guerra. In quel cinema ci sono una donna con le sue due figlie, Iris e Mimosa. Riccardo, un ragazzo che dice di lavorare nel cinema, le avvicina subito dopo il film e dice a Iris che è bella e che potrebbe fare il cinema come comparsa. A Cinecittà stanno girando un kolossal ambientato nell’antico Egitto. È così che inizia Finalmente l’alba, il film di Saverio Costanzo che è stato presentato in Concorso al Festival di Venezia e ora arriva al cinema dal 14 febbraio. È un film che è più cose in uno: inizia come affresco d’epoca e come film metacinematografico, costeggia il noir e il giallo per svelare la sua vera natura, quella di insolito romanzo di formazione.
Sì, Riccardo aveva scelto Iris (Sofia Panizzi) per portarla al provino, molto probabilmente al solo scopo di corteggiarla, perché lui in quel film in fondo non ci lavora nemmeno. Ma la diva del film, Josephine Esperanto (Lily James), che per un attimo incrocia lo sguardo con lei lungo i corridoi di Cinecittà, sceglie Mimosa (Rebecca Antonaci), la sorella minore, quella (apparentemente) meno bella. Ha visto il suo sguardo e vuole che ci sia Mimosa, al posto di un’altra figurante che la infastidisce, di fronte a lei mentre deve pronunciare le sue battute nell’ultima scena del film. E pensare che Mimosa non doveva nemmeno esserci lì. Era andata solo per curiosità, per accompagnare la sorella, e per assaporare un po’ della magia dell’Hollywood sul Tevere, come veniva chiamata in quegli anni Cinecittà. Mimosa era la figlia che era destinata soltanto ad un matrimonio con un buon partito (come la figlia di Delia in C’è ancora domani), un poliziotto, che non aveva neanche scelto. Tanto che, quando deve andare a incontrarlo, ha l’espressione di chi deve andare al patibolo.
Non sappiamo quale sarà la vita di Mimosa. Che cosa accadrà dentro di lei e intorno a lei nei giorni e negli anni che seguono quella notte che passa con i divi di Hollywood (Finalmente l’alba si svolge tutto in un giorno e in una notte, ed è anche in questo il fascino del film). Ma siamo sicuri che non si sposerà con quel ragazzo, che non accetterà passivamente quello che le viene imposto. Ne siamo sicuri perché, nel giro di un giorno e di una notte, abbiamo visto Mimosa trasformarsi. L’abbiamo vista che era una ragazzina, timorata, insicura. Dopo quella notte la ritroviamo donna, sicura di sé, con lo sguardo alto e fiero.
Mimosa ha lo sguardo fiero e l’andatura sicura di chi può camminare accanto a una leonessa, come vediamo nell’ultima inquadratura del film, vagamente “sorrentiniana”. Segno che una leonessa lo è anche lei, e anche l’animale la riconosce come tale. È da scene come questa, e da alcune altre, che si nota la classe della regia di Saverio Costanzo. Che è allo stesso tempo filologica, rispettosa degli stilemi del tempo e dell’atmosfera di quegli anni di Storia e di Cinema (e di Storia del Cinema), ma anche allegorica e ispirata. Il senso del film sta tutto in un’altra sequenza, quella dell’ultimo, fugace incontro, tra Mimosa e Josephine. Lei la allontana e le chiude in faccia una porta scorrevole a specchi. E così l’immagine della diva scompare mentre appare, riflessa sulla parete mobile, il volto di Mimosa. Segno che non ha bisogno di Hollywood, che non le serve quel mondo, che non conta un volto da diva. È il suo volto quello al centro. È lei la protagonista. È lei che può diventare protagonista della sua vita.
È uno dei momenti in cui spicca di più il volto della giovane Rebecca Antonaci, esordiente strepitosa e magnetica. È incredibile come il suo viso, nel corso del film, passi da quello di una ragazza qualunque a quello di una donna bellissima, forte, consapevole. È merito della regia, del trucco, del casting, ma anche e soprattutto di lei, Rebecca Antonaci, volto nuovo, fresco, e soprattutto diverso da tutti gli altri che abbiamo visto finora al cinema. I suoi occhi enormi, blu, sgranati di fronte alla magia del cinema, dei divi, ma soprattutto di fronte a quella vita che non ha ancora mai assaporato fino in fondo sono la chiave del film.
E il nostro astro nascente è così potente che si mescola benissimo a volti ormai notissimi al pubblico del cinema e della tv. Josephine è Lily James, vista in decine di film e serie, da Yesterday a Baby Driver a Pam & Tommy fino al recente The Warrior – The Iron Claw. Anche lei nel film cambia più volte. La incontriamo per la prima volta nei panni di quello che è il suo personaggio nel film, la donna faraone. Il volto coperto da una patina dorata, i capelli nero corvino, la voce rotta dall’odio, la bocca deformata in una smorfia di cattiveria. E poi la vediamo nei panni di Josephine Esperanto, della diva, una sorta di Rita Hayworth dai lunghi capelli rossi e l’abito con lo scollo che lascia scoperte entrambe le spalle. Ma, lo capiremo, anche questo non è altro che un travestimento, un altro ruolo da interpretare. Accanto a loro, donne così diverse, solitudini che si uniscono per una notte, c’è Joe Keery, lo Steve Harrington di Stranger Things, attore dal volto versatile, comunicativo, empatico, nei panni del divo insicuro di sé e della sua bravura.
Romanzo di formazione insolito e inaspettato, Finalmente l’alba è, come dicevamo, anche metacinema, e quindi una dichiarazione d’amore per la Settima Arte, e un grande affresco d’epoca sul nostro cinema degli anni Quaranta e Cinquanta. Finalmente anche un film italiano fa qualcosa che gli americani fanno benissimo, valorizzare il loro passato artistico e cinematografico. Così Finalmente l’alba è un po’ il nostro Babylon (ma a differenza di quel film, che si apre con una festa e continua sul set, qui è il contrario), anche se solo in superficie. Girare a Cinecittà è stata in questo senso la scelta perfetta. Le sequenze girate agli studios sono piene di magia, sono evocative, potenti. I teatri di posa, negli esterni, sono inquadrati spesso dal basso verso l’alto, in modo da sembrare imponenti, gloriosi. È questa la sensazione che deve avere una piccola ragazza come Mimosa davanti a quel mondo, vederlo ancora più grande di quello che è.
Finalmente l’alba è così, si muove in quegli anni. Il Neorealismo, Alida Valli (interpretata da Alba Rohrwacher) e Piero Piccioni, l’omicidio di Wilma Montesi, una giovane figurante del cinema trovata morta a Capocotta, Cinecittà che era la Hollywood sul Tevere e così via. Era un mondo ancora aperto, in cui una ragazza qualunque poteva entrare in contatto con i divi del cinema, anche se solo per una notte. Come ha scritto Saverio Costanzo, Finalmente l’alba è un film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore. La protagonista Mimosa è un foglio bianco, su cui ognuno dei personaggi in cui s’imbatte scrive la sua storia, senza paura di essere giudicato. Il film si chiude a Piazza di Spagna e via Condotti. Una giovane donna che cammina a piedi nudi, una leonessa. E gli Strokes, che chiudono il film con la loro Last Nite. “La scorsa notte lei ha detto, oh tesoro mi sento così giù. Mi passa la voglia, quando mi sento esclusa. Quindi io, mi sono girata. Oh tesoro non importa più, lo so di sicuro. Camminerò fuori da quella porta. Beh sono stato in città per almeno 15 minuti. E tesoro mi sento così giù. E non so perché. Ho camminato per miglia”
di Maurizio Ermisino
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