“È la nostra passione letale. La nostra gioia terribile”. È la velocità. Sono i motori, le corse. I bolidi lanciati a tutta velocità verso la gloria o verso la morte. A parlare è Enzo Ferrari, interpretato da Adam Driver, in Ferrari, il film di Michael Mann presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e in uscita al cinema il 14 dicembre. È un film che coglie Enzo Ferrari in una tranche de vie, il 1957, anno di crisi societarie e personali. I bilanci della Ferrari sono in bilico, le vittorie in pista anche. Ma è in bilico anche la sua vita personale, tra la moglie Laura e l’amante Lina. Vita pubblica e vita privata si mescolano così in quello che è un classico biopic, con un grande cast, ma anche con tante ingenuità.
Da Modena alla Mille Miglia
Modena, 1957. Enzo Ferrari (Adam Driver), ex pilota e costruttore delle auto più famose al mondo, sta vivendo una crisi personale e professionale. L’azienda che dieci anni prima aveva creato dal nulla è in grave difficoltà e anche il matrimonio con la moglie Laura (Penélope Cruz) sta diventando sempre più tempestoso dopo la morte del loro unico figlio Dino e la scoperta dell’esistenza di Piero, il figlio che Ferrari aveva avuto da una relazione extraconiugale con Lina Lardi (Shailene Woodley). In cerca di riscatto, il “Drake” decide di puntare tutto su una gara di velocità che si disputa in Italia: la leggendaria Mille Miglia.
Sacro e profano
Sacro e profano, amore e morte, sentimenti e ragion di Stato si mescolano continuamente nel film di Michael Mann. Se Gesù fosse nato oggi, a Modena, non sarebbe un falegname ma un metalmeccanico. È questo che, a messa, la domenica dice il prete. Perché tutto, in quegli anni Cinquanta, a Modena, in un’Italia che risorgeva dalla guerra, ruotava attorno a quei motori, a quelle macchine rosso fuoco. E così Michael Mann ci fa assistere, in montaggio alternato, alla messa e alle corse. Mentre Enzo Ferrari e i suoi fanno la comunione, il pilota della Maserati batte il record del giro di pista, e così Enzo Ferrari vuole riprenderselo a tutti i costi. Anche a costo della vita di un pilota.
Due oggetti non possono occupare lo stesso punto nello spazio, nello stesso momento
Amore e morte. Ferrari è soprattutto questo. È un mondo dove si vive per correre, per vincere, dove i piloti sono lasciati in balia di quei bolidi che sono delle bare che vanno a 300 chilometri all’ora, come ci raccontava già Rush di Ron Howard, ambientato vent’anni dopo, ai tempi di Niki Lauda e James Hunt. Il senso della morte è costante nel film di Michael Mann. Nelle storie di quei piloti che corrono consapevoli del loro destino, tanto da lasciare alle amate delle lettere in cui iniziano con “se non dovessi tornare”, come quando si va in guerra. Consapevoli che, a un certo punto della corsa, dovranno scegliere di premere ancora l’acceleratore e non il freno, perché “due oggetti non possono occupare lo stesso punto nello spazio, nello stesso momento”: un oggetto, cioè un’auto, dovrà passare, e dovrà essere la loro, non quella dell’avversario. Ma la morte è anche il rimpianto per la storia dolente di Dino Ferrari, il primo figlio di Enzo e Laura, l’erede prediletto di Enzo, scomparso troppo presto per una malattia incurabile.
Ferrari e le donne
Morte e amore. L’amore è quello per le donne della vita di Enzo Ferrari. La moglie Laura, interpretata da Penélope Cruz che, nella versione originale, parla inglese con un accento spagnolo, e dà vita a quello che gli stranieri immaginano sia la donna italiana, quella che si vedeva nei nostri vecchi film. Laura è moglie e anche socia in affari (detiene il 50% delle azioni della Ferrari), allo stesso tempo complice e avversaria, furibonda ma anche empatica. È una donna che decide, che prende delle scelte, che non aspetta. Che non esita a minacciare il marito con una pistola, ma poi fa l’amore con lui sul tavolo della cucina, come facevano Jack Nicholson e Jessica Lange ne Il postino suona sempre due volte. E poi c’è l’altra donna, Lina, l’amante, una donna tenera e comprensiva, un grande amore di Ferrari nato durante la guerra, interpretata da Shailene Woodley nel suo primo ruolo da adulta, la madre del figlio illegittimo di Enzo, Pietro Ferrari, che verrà riconosciuto e oggi è vicepresidente della Ferrari. E poi, ancora, Linda Christian, la famosa attrice che era stata la compagna di Tyrone Power, e ora è la compagna di Alfonso De Portago, il pilota spagnolo appena entrato in Ferrari. A interpretarla c’è Sarah Gadon, volto pulito e movenze e attitudine da diva d’altri tempi.
Adam Driver è Enzo Ferrari
Al centro della storia c’è lui, Adam Driver, ancora una volta mimetico, scomparso dentro il personaggio di Enzo Ferrari. Il suo volto è duro, roccioso: lo sguardo è glaciale, l’espressione è impassibile. Quella mascella è sempre serrata, quella di chi è sempre in guerra. Adam Driver è invecchiato per la parte, ha i capelli bianchi pettinati all’indietro. A volte indossa degli occhiali neri, che ne rendono il volto ancora più enigmatico, imperturbabile. La sua camminata è sempre veloce, ma caracollante. Ferrari è un uomo che ha cominciato a vedere e sentire la morte intorno a sé. Quella del figlio è qualcosa di impossibile da elaborare. Ma anche quella dei suoi amici, piloti morti dentro le macchine costruite da lui, sono un fardello pesante. E così Enzo ha costruito attorno a sé un muro.
Un film che vive di tempo e di meccanica, di velocità e di precisione
Ferrari è un film che vive di tempo e di meccanica, di velocità e di precisione. È un film scandito dal ticchettio del cronometro. È un film fatto di ingranaggi che si spezzano, pneumatici che si squarciano, metalli divelti e lancinanti e bolidi che prendono fuoco. Le immagini delle corse, eventi leggendari come Le Mans e la Mille Miglia, così lontane dalla Formula 1 e dalla Ferrari che abbiamo conosciuto noi, sono le cose più riuscite del film: tese, vibranti, con la sensazione che le vite di chi è dentro quei bolidi siano appese a un filo, o forse neanche quello. Il materiale, i temi, gli attori per fare un grande film c’erano tutti. E anche il regista, Michael Mann. Peccato che il film proceda costantemente incerto tra la saga familiare e il film di epica sportiva, tra storia privata e grande metafora sul senso della vita e della morte. Il problema è soprattutto nella scrittura, e nella scelta di farlo recitare in un misto tra inglese e italiano (anche se, nelle sale, vedremo soprattutto la versione doppiata). Il film così finisce spesso dalle parti della soap opera, o del melodramma, condito anche dall’onnipresente musica lirica che gli americani cercano sempre quando parlano di Italia. Restano delle grandi sequenze d’azione che fanno venire i brividi e che evocano un mondo di corse che non c’è più, con quella costante presenza della morte che può arrivare da un momento all’altro.
di Maurizio Ermisino
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