La voce di Achille Togliani, stentorea e rétro, apre C’è ancora domani, il film d’esordio da regista di Paola Cortellesi, che ha aperto la Festa del Cinema di Roma, e che arriva nelle sale il 26 ottobre distribuito da Vision Distribution. Achille Togliani è solo un indizio del fatto che siamo negli anni Quaranta, per la precisione tra il maggio e il giugno del 1946, a Roma. A farci precipitare indietro nel tempo è anche la fotografia in bianco e nero, un bianco e nero preciso, quello del Neorealismo, e il formato in 4:3, quello quadrato dei film di una volta. Il film d’esordio alla regia di Paola Cortellesi è una storia ambientata nel passato che però parla, con potenza, al presente. Alle donne, ma anche agli uomini. Perché in quegli anni è iniziata una storia nuova, che tutti dobbiamo ancora portare a compimento. C’è ancora domani è un film allo stesso tempo dolorosissimo e spassoso, e con un messaggio importante. Per tutte queste ragioni è un film da vedere.
Roma, 1946. È appena finita la guerra, in città ci sono ancora i soldati americani. Delia (Paola Cortellesi) è sposata con Ivano (Valerio Mastandrea), un uomo frustrato e violento, e vive con lui, con il suocero Ottorino (Giorgio Colangeli) e con i tre figli. La più grande, Marcella (Romana Maggiora Vergano), sta per sposarsi con Giulio (Francesco Centorame), che viene da una famiglia altolocata (in realtà dei burini arricchiti), mentre Delia e la sua famiglia vivono in un seminterrato e faticano a sbarcare il lunario. Il pranzo per conoscere i futuri consuoceri, allora, crea preoccupazione e tensione. Ma non è solo quello: Delia non ce la fa più a sopportare le continue angherie e violenze del marito, e sogna di fuggire. Qualcosa di importante, intanto, sta per accadere.
C’è ancora domani è un film che si vive, dall’inizio alla fine, dal punto di vista femminile, immedesimandosi totalmente nella protagonista, Delia. La comicità e l’ironia del film, fatta di battute sagaci tipiche di una certa romanità che al cinema funziona sempre, servono in realtà a tenerci su, a stemperare la tensione continua che attraversa il film. C’è ancora domani si vive con un senso continuo di oppressione e claustrofobia, con un senso di ingiustizia che viviamo diventando Delia. Le stanze anguste e buie in cui vive sono il paesaggio stato d’animo della sua condizione. Si vive il film aspettando una catarsi, una liberazione, un volo verso qualcos’altro. Arriverà, ma non sarà quello che ci aspettiamo. È questa una delle sorprese di un film che ha molte svolte e molti colpi di scena.
Forse in maniera didascalica, almeno all’inizio, ma funzionale al messaggio che vuole dare, il film racconta la condizione della donna in quei lontani (ma davvero lo sono?) anni Quaranta. A scuola le donne non ci vanno, e infatti alle medie ci va il figlio maschio, e la maggiore, Marcella (Maggiora Vergano), ha appena fatto l’avviamento, che già viene visto come una grande concessione. Marcella lavora. Ma la speranza di chi è intorno a lei è che si sposi per diventare una “signora”, e non lavorare più. Ma se lei volesse lavorare? E, ancor di più, se avesse voluto studiare? Marcella si dice innamorata e vogliosa di sposarsi, ma se diventasse come la madre Delia, una sorta di serva del marito? Delia infatti è costretta a badare alla casa, a fare tanti lavoretti per arrotondare portando poi tutto il guadagno al marito. Al lavoro principale, la bottega di un ombrellaio, guadagna di meno del nuovo assunto, al primo giorno di lavoro, solo perché lui è un uomo. Ma, soprattutto, ogni uomo, in casa, le dice di stare zitta. E non accade solo a lei: anche la moglie del figlio del notaio a cui va a fare le punture, non può esprimere opinioni.
Il gioco di C’è ancora domani è scoperto, è chiaro, ed è efficace: è impossibile, per chi guarda, scappare. Perché ci porta indietro a un’epoca, gli anni Quaranta, dove il maschilismo e il patriarcato erano evidenti e accettati. Ti fa inorridire, e poi pensare “ma a quell’epoca era normale, era ottant’anni fa”. E poi ti fa pensare a oggi, e dire “ma davvero è diverso? Davvero le cose non sono cambiate”. È diverso, le cose sono cambiate ma non abbastanza. In alcuni luoghi, in alcune situazioni, a volte anche velatamente, la discriminazione c’è ancora tutta.
Ma quello che non è cambiato è ancora la violenza domestica, il maschilismo tossico, e i dati sul femminicidio e le violenze parlano chiaro, ed è solo la punta dell’iceberg. Il mondo si è evoluto, ma il retaggio è qualcosa di difficile da scardinare dalla cultura. Paola Cortellesi è bravissima a raccontarci anche la violenza, sublimandola in una sorta di balletto da musical, sulle note della famosa Nessuno, canzone che fu portata al successo da Mina, astraendo così la scena dalla brutalità che contiene, rendendola una sorta di rituale, qualcosa di ordinario. Ma facendoci arrivare il disgusto forte e chiaro.
Questa sequenza è una sola delle tante perle di regia di Paola Cortellesi, che, come detto, non si appiattisce sull’immaginario del Neorealismo per raccontare un’epoca precisa, ma la arricchisce di vari virtuosismi. Il sogno/flashback che racconta l’innamoramento tra lei e Ivano, avvenuto una ventina di anni prima, ci porta negli anni Venti, e quindi è raccontato con gli stilemi del cinema muto di quel periodo. Ma ci sorprende ancora con altri anacronismi musicali, con la musica rock, quasi punk che irrompe sullo schermo in alcuni momenti (le camminate, le corse) e con musica cantautorale che all’epoca non c’era: Fabio Concato, Lucio Dalla e Daniele Silvestri, la cui A bocca chiusa accompagna la sequenza finale, la più significativa del film, in cui per un attimo la recitazione si lega alla musica. È quel volo che aspettavamo. Ma più in alto di quello che potevamo immaginare. Lo vedrete.
E vedrete anche attori iconici del cinema italiano di oggi diventare delle figure d’altri tempi, mimetizzandosi in quei personaggi, eppure portando in essi anche la loro modernità, l’attualità del discorso. Così la depressione che abbiamo visto tante volte in Valerio Mastandrea qui sfocia in una frustrazione violenta. E quella mimica facciale, quelle microespressioni di Paola Cortellesi che amiamo fin dalle sue prime apparizioni a Mai Dire Gol qui prendono una venatura malinconia e dimessa. Emanuela Fanelli si cala alla perfezione nel ruolo della popolana romana, tra ironia trasteverina e affidabilità da amica vera. Ma è bravissima anche la giovane Romana Maggiora Vergano, volto promettente che vorremmo vedere ancora spesso sui nostri schermi, che incarna una consapevolezza femminile nuova. Ma la sua storia d’amore è anche il sintomo che il patriarcato non cambia. E nelle tre generazioni che vediamo nel film il retaggio è lo stesso. Ma cambiare si può. E personaggi come la Delia di Paola Cortellesi offre un riscatto alle tante donne che hanno costruito il tessuto sociale di questo Paese e sono sempre state considerate delle nullità. Anche da loro stesse.
di Maurizio Ermisino
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