Wanted Cinema è lieta di annunciare la clip italiana di A passo d’uomo (Sur les chemins noirs), in arrivo in sala da giovedì 19 ottobre con il patrocinio del Club alpino italiano, presentato in anteprima alla 71edizione del Trento Film Festival come film d’apertura della manifestazione. Tratto dall’omonimo libro autobiografico best seller dello scrittore-esploratore francese Sylvain Tesson, A passo d’uomo è diretto da Denis Imbert (Vicky, Mystère) e alla sua uscita in sala in Francia a marzo ha ottenuto il plauso della critica e incassato numeri da capogiro al box office d’Oltralpe. Nel cast, insieme a Jean Dujardin, troviamo Izia Higelin, Josephine Japy e Jonathan Zaccai.
Protagonista indiscusso di questo viaggio attraverso la Francia – un cammino a piedi di 1300 km che va dal Mercantour al Cotentin, ma anche un viaggio interiore per riappropriarsi di un corpo ridotto in pezzi e rimarginare dolorose ferite – è un intenso Jean Dujardin (Premio Oscar® per The Artist), che qui veste i panni di Pierre, un celebre scrittore con un debole per le esperienze estreme e i viaggi in solitaria. Una sera, ubriaco, si arrampica sulla facciata di un palazzo e cade per diversi piani. L’incidente lo lascia in coma profondo. Quando ne esce, Pierre riesce a malapena a stare in piedi. Contro il parere di tutti, decide di fare un’escursione da solo attraverso la Francia, dalla Provenza a Mont Saint Michel, lungo sentieri dimenticati attraverso alcune delle regioni più aspre, inospitali e belle della Francia. Basata su eventi reali, questa fuga dal mondo frenetico è una storia di forza d’animo, guarigione, resilienza e riconnessione alla natura e al sé profondo.
“L’eroe ha un lato selvaggio” – commenta il regista – “come un lupo che osserva la vita degli uomini, tenendosene a distanza. Allo stesso modo, dalla regia mi sforzavo di vederlo uscire da un cespuglio, attraversare la strada e ripartire in un boschetto come un animale. I sentieri neri sono delle tracce lasciate, che non esistono sulle mappe. Sono sentieri percorsi da animali selvatici. Mi piaceva questa idea di attraversamento. La Francia ha questa prospettiva, queste incredibili linee di fuga”.
Sinossi
Durante una serata alcolica, Pierre, autore ed esploratore, precipita dall’alto di un edificio. Uno stupido incidente che lo porterà in un coma profondo. Sul letto di ospedale, una volta risvegliato, si promette di attraversare la Francia a piedi dal Mercantour (a Sud est) fino a Cotentin (all’estremo Nord Ovest). Un viaggio unico e senza tempo alla scoperta della natura, della bellezza della Francia e di una rinascita personale.
Intervista al regista Denis Imbert
COME E’ NATO QUESTO PROGETTO?
Tra due film c’è sempre un periodo di riposo, di transizione, che può essere scomodo. È come un periodo di vagabondaggio, fatto di dubbi, riflessioni, ma che bisogna imparare ad accettare. Proprio durante uno di questi periodi ho scoperto il romanzo “Sentieri neri”. Ho letto tutto ciò che ha scritto Sylvain Tesson. Quando ho saputo del suo incidente a Chamonix, sono rimasto parecchio colpito. L’ho trovato straordinario e terribile allo stesso tempo. Leggendo “Sentieri neri” ho avuto l’impressione che Sylvain fosse tornato con i piedi per terra, che in qualche modo fosse tornato morta-le. Ma il mio film ha anche un’altra radice: il progetto è nato alla fine dell’isolamento a causa COVID-19, in un momento in cui eravamo stanchi della vita urbana e avevamo bisogno di ri-connetterci con il mondo fuori, con la natura. Il percorso che Sylvain intraprende e questo desiderio di abbracciare una vita del tutto rurale, mi hanno dato l’idea per il soggetto del film.
LEI E’ UN GRANDE APPASSIONATO DELLA LETTERATURA DI SYLVAIN TESSON.
COSA APPREZZA DI LUI?
Per me è un autore universale, lo scrittore-viaggiatore per eccellenza. Ma solo molto raramente affronta l’intimo e quando lo fa, per il lettore è come seguire il lavoro di un archeologo. In tutti i suoi racconti di Sylvain ci porta per mano con sé. Ha questa straordinaria capacità di farci viaggiare. Ma poco si sa di lui e dei suoi sentimenti. Con Sylvain si deve scavare a scavare per arrivare a scoprire qualcosa. Rompere la corazza esterna per trovare a poco a poco il nocciolo della sua arte letteraria. Mi ci è voluto del tempo per capire quanto fosse personale e intima questa storia. Una forma di autofic-tion.
QUAL E’ STATO IL PUNTO DI INNESCO CHE LE HA FATTO PENSARE DI SCRIVERE
QUESTO FILM?
C’è una frase in “Sentieri neri” in cui Tesson dice che l’unico motivo per cui voleva attraversa-re la Francia, veniva da un pezzetto di carta accartocciato trovato in fondo ad una borsa. Questa frase, all’inizio del libro, mi ha perseguitato per settimane. Mi chiedevo cosa potesse nascondersi dietro que-sto mistero e ho pensato subito a una donna. Probabilmente era un elemento utile per evidenziare l’intimità di questa storia ed è questo che mi ha spinto a voler realizzare il film. Mi interessava partire proprio da questo mistero. Trovavo quasi vertiginoso scrivere un film sulla storia di un uomo in tra-sformazione: è stato arduo da realizzare, a partire dalla scrittura, fino alle riprese, al montaggio… Infi-ne, solo coi primi ciak ho capito cosa stavo realizzando: sono state rivelatorie le scene del cammino del protagonista. E’ davvero una narrazione assoluta. È stato lì che ho capito che il film poteva essere realizzato.
COME HA LAVORATO ALL’ADATTAMENTO?
L’incontro con lo sceneggiatore Diastème è stato importante. Dopo aver letto “Sentieri neri”, ha accettato di occuparsi della struttura narrativa. Lui ha costruito lo ‘scheletro’ e io ho potuto pensare alla ‘carne’. Ho introdotto tutti i flashback, gli episodi, la psicologia del personaggio, ho potuto allargarmi a partire dalla narrazione e tutto è stato più facile. La scrittura della sceneggiatura si basava su una forte convinzione: questa non è una storia di resilienza. È un cambio di prospettiva, racconta il tempo so-speso di un uomo che attraversa un paese. È un libro e poi un film sulla riparazione. Io che amo la na-tura nel senso cinematografico del termine, non volevo assolutamente creare immagini da cartolina. Mi sono vietato di filmare una guida turistica della Francia. La mia ossessione era la natura in quanto ma-teria e che il personaggio scomparisse nel paesaggio. Chiedendo a Sylvain come riassumere il suo li-bro, mi ha risposto che era ‘una conversazione tra un paesaggio e un volto’. Ho costruito il film in questa direzione. Appena cammini, quando sei solo, entri in uno stato di introspezione. Questo è un viaggio interiore. Sylvain Tesson ci parla del valore del cammino.
PER USARE UN’ESPRESSIONE DI DUJARDIN, E’ UNA STORIA SCRITTA E FILMATA “ALL’OSSO”
Sì, è stata una realizzazione radicale. Sia per quanto riguarda il ritmo delle riprese sia per l’idea di partire con un team ridotto, di 10 persone in totale. Ho fatto ricerca sulle location durante la prima spedizione perché era impossibile per me raccontare questa storia e filmarla senza aver intrapreso quel-lo stesso percorso. Sono partito con Arnaud Humann, la guida di Sylvain che avevo conosciuto gi-rando un film con lui in Siberia. Siamo partiti in macchina, ovviamente, ma facendo anche dei lunghi pezzi a piedi, per diversi giorni. Per me era fondamentale seguire le orme di Sylvain, sperimentare le difficoltà della camminata, la dolcezza del bivacco.
È così che abbiamo scovato gli altri personaggi del film. Durante il percorso capita di incontrare un contadino, dei cacciatori… Abbiamo convissuto con lo spettro di Sylvain e attraverso i suoi incontri. Ciò mi ha davvero permesso di sviluppare la sceneggiatura e di rielaborarla. Ad esempio, rispetto alla scena con il contadino, ho riscritto completamente i dialoghi dopo il mio incontro con lui e ho finito per assumere proprio lui per interpretare il suo ruolo.
È UN FILM CHE SPOSA I RUMORI DELLA NATURA. QUASI GEOLOGICO…
Avevo il desiderio profondo di realizzare un film che si potesse ascoltare. Abbiamo fatto tan-tissime registrazioni di Jean che cammina su pietre. Tesson dice «dimmi su che pavimento vivi e ti dirò chi sei». Infatti è vero che esiste una geografia sonora.
RITORNANDO AI FLASHBACK DELL’INCIDENTE E AGLI INCONTRI CON ALTRI
PER-SONAGGI, POSSIAMO DIRE CHE SONO ALTRETTANTE SFACCETTATURE DEL
SUO PERSONAGGIO?
Esatto. Sono elementi che costruiscono e nutrono il personaggio. Ciò che mi interessava era che si scoprisse chi è quest’uomo grazie agli incontri che fa lungo il cammino. Che ne rivelassero l’anima. Quando lo stesso Sylvain è venuto a trovarci sul set, ho potuto osservarlo a contatto con la dimensione rurale, con i contadini, e ho visto che si relazionava a loro con grande disinvoltura e di-sponibilità. È una persona che si svela attraverso le persone che incontra. Era molto interessante ap-profondire questo aspetto. In più, il mio personaggio cambia poco, se non per niente, durante la storia. All’inizio è persino un po’ apatico. Non è dotato di una particolare generosità. Per esempio nell’incontro con il personaggio della pastorella all’inizio del film, si avverte che c’è un momento di seduzione, di possibile interazione. Ma si sente che lui sta sulle sue, sulla difensiva e infine lascia per-dere. Eppure scopriremo che è un uomo che in società non era insensibile al fascino femminile. Vole-vo far intravedere questi piccoli aspetti, ma senza insisterci su.
SCEGLIERE IL “NON DETTO” PER CARATTERIZZARE IL PROTAGONISTA DI UNA STORIA PUO’ AFFATICARE LO SPETTATORE… E’ UN RISCHIO?
Ciò che mi piace del film è che alla fine più di un elemento rimane avvolto nel mistero. Ci sono cose che non sapremo mai, che lui non ci avrà confidato, come i dettagli dell’incidente o la sua batta-glia con l’alcolismo. Nella scena della rottura con la giovane fidanzata in ospedale, lei gli dice che non sarà questo incidente a separarli ma lei se ne va e lui non la richiama. Trovo piacevole tratteggiare un personaggio che non chiede perdono. Il che non è per forza scandaloso ma può rappresentare l’animo di un uomo integro, semplicemente integro.
LA REGIA HA QUALCOSA DI ORGANICO…
Era essenziale per me poter addosso al mio protagonista. Perché in un film come questo, se non ti avvicini con la camera al tuo attore, ci sono cose che non riesci a dirgli, suggerirgli. Abbiamo girato a 360 gradi, continuamente, filmando il personaggio lungo una vallata fino a quando non scom-pare. Sapendo che tutti i piani erano montabili tra loro, volevo che Jean non uscisse quasi mai dall’inquadratura, una difficoltà ulteriore che ho condiviso con Magali Silvestre de Sacy, la mia capo operatrice. Da qui anche la volontà di girare con una sola telecamera. Questo costringe a tagliare poco, a far durare i piani il più a lungo possibile ed anche ad essere in movimento. Si cerca di non essere mai nel cliché paesaggistico: si riprende un personaggio che attraversa una valle, non il contrario. Ecco il lato organico. Volevo evitare quegli inizi e finali di scena che sono trappole per il montaggio. Quando Diastème è venuto sul set mi ha detto di essere sbalordito dal fatto che non taglio mai. E infatti, era proprio questo il film: accendere la telecamera, stare con il personaggio che è accanto a un fuoco, tirerà fuori un libro, lo leggerà, lo poserà, fumerà un sigaro, rimetterà la legna… Ed era proprio questa lun-ghezza che cercavo, perché permette all’attore di abbandonare i suoi riflessi interpretativi, per lasciare agire l’inconscio. Bisogna sempre cercarla.
COME SCEGLIERE L’INQUADRATURA ? È FRUTTO DI UN RAGIONAMENTO O PURO ISTINTO?
L’idea principale è che sia il personaggio a portarci da qualche parte. Siamo con lui. È lui che ci tira fuori dai piani sequenza e noi siamo sempre dalla parte del suo punto di vista. È sempre lui che guarda. La mia ossessione era il suo volto. Cercavo sempre di catturare l’anima dell’attore e del perso-naggio. In un ambiente del genere, l’espressione è semplice. Non bisogna cercare la messa in scena, bisogna solo trovare la cornice giusta, e lasciare fare al paesaggio. C’è una pienezza, una forza che permette di affidarsi ad essa.
INFATTI IL FILM SEMBRA GUIDATO DAL PERSONAGGIO PIÙ CHE DELLA REGIA, È COSÌ CHE SI EVITA LO STILE PITTORESCO?
L’eroe ha un lato selvaggio. Come un lupo che osserva la vita degli uomini, tenendosene a distanza. Allo stesso modo, dalla regia mi sforzavo di vederlo uscire da un cespuglio, attraversare la strada e ripartire in un boschetto come un animale. I sentieri neri sono delle tracce lasciate, che non esistono sulle mappe. Sono sentieri percorsi da animali selvatici. Mi piaceva questa idea di attraver-samento. La Francia ha questa prospettiva, queste incredibili linee di fuga. Si può camminare per quattro giorni su sentieri in vetta, senza incontrare nessuno.
IN QUALI CONDIZIONI AVETE EFFETTUATO LE RIPRESE?
Ho avuto la fortuna di poter girare il film nelle stesse date del viaggio di Sylvain, cioè dall’i-nizio di settembre fino alla fine di novembre. Il personaggio non è un vagabondo. È qualcuno che cammina, ha con sé una mappa e ogni giorno porta a termine un itinerario. Sa che se l’inverno lo raggiungerà non potrà più bivaccare né dormire all’aperto, deve dunque tenere il passo. Speravo di iniziare con il clima ancora mite della fine dell’estate per vedere arrivare a poco a poco il vento e il ge-lo dell’autunno. E ovviamente non abbiamo avuto un autunno (risate). Ma fortunatamente abbiamo avuto un po’ di pioggia. La scommessa del film era che all’inizio del film il protagonista fosse affran-to dal caldo. Che sudasse abbondantemente. E ovviamente c’è stata una gran pioggia (ride). Il pro-blema delle riprese di questo film è che non si poteva mai tornare indietro. È orribile per un regista (ride). Solo una volta o due abbiamo dormito nello stesso posto. Dovevamo andare avanti, proprio come il personaggio. Ma Tesson dice che per restare liberi non bisogna mai dormire più di due volte nello stesso posto.
DICEVAMO DI UNA REGIA SENZA FRONZOLI…
Quando si hanno pochi mezzi, che, nonostante le apparenze, era il nostro caso, si va dritti al punto. Non avevo carrelli né logistica complicata, semplicemente perché era impossibile portarsi die-tro tutto il materiale. Quindi non c’è nessuna interfaccia, nessun vincolo logistico, che ci allontana dalla narrazione.
IL SUONO CREA UN REALISMO FREDDO, UN LATO GUTTURALE…
È stato Marc Doisne a mixare il film. E le scelte di Damien Luquet (che ha lavorato con Te-rence Malick) per la presa diretta del suono sono state altrettanto fondamentali. Con Damien, aveva-mo preparato tutto il film in anticipo e su ogni scenario sapevamo esattamente il materiale di cui ave-vamo bisogno. Lui da solo ha registrato molti suoni e con Marc abbiamo poi lavorato insieme. Non volevo solo approvare il risultato, volevo partecipare attivamente alla costruzione sonora del film. Ad esempio, abbiamo aggiunto il vento per dare la sensazione del freddo in arrivo. Immaginavo che lo spettatore volesse chiudere gli occhi per ascoltare il film e viverlo ancora meglio.
HA UTILIZZATO UNA VOCE FUORI CAMPO. UN’ALTRA SCOMMESSA RISCHIOSA…
La voce fuori campo spaventa tutti. Ma nella scrittura mi ha dato modo di “nutrire” il perso-naggio di Jean. È comunque qualcuno che sta scrivendo un libro. Era importante che ci fosse questo suo pensiero interiore. Senza farne una caricatura. Ci sono dunque molte cose che ho fatto uscire dal libro, le abbiamo riscritte con Diastème e poi le abbiamo ricollocate nella sceneggiatura. Le avevamo preregistrate. Le ho passate a Jean durante le riprese attraverso un auricolare. Poi abbiamo rielaborato tutto durante il montaggio. E’ stato allora che la voce fuori campo ha trovato il suo equilibrio. E quan-do Sylvain ha visto uno dei primi montati del film, si è offerto di riscrivere alcuni passaggi della voce narrante; è stata una grande fortuna.
JEAN DUJARDIN, CHE TIPO DI ATTORE È?
È un attore che lavora molto. Si tratta di essere veloci quanto lo è lui, di porsi le domande prima che se le ponga lui, avere le risposte pronte. È una persona molto disponibile. Conta solo il film per lui. Era un momento di abbandono che volevo cogliere in Jean. Volevo togliergli ogni rife-rimento, ogni possibile stampella. Gli ho lasciato poche cose concrete da giocare. Volevo che tutto venisse da dentro. Sapevo che è un attore magico. Ha questa capacità di trasformarsi. È un attore del concreto e del realismo. Lui deve sentirle le cose, allora ci entra molto rapidamente.
E COME HA LAVORATO CON LE ALTRE ATTRICI E ATTORI CHE VENIVANO SUL SET SOLO PER POCO TEMPO?
Volevo assolutamente che gli attori che dovevano recitare con Jean arrivassero il giorno pri-ma e cenassero almeno con lui. Hanno incontrato un uomo pieno di empatia. Jean crea legame ovun-que vada. Alcuni si tiravano indietro all’idea di ripassare le battute con lui. Invece Jean è un ottimo compagno di gioco. Cerca di aiutare, valorizzare il proprio partner.
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