Martin Scorsese, Robert De Niro, Leonardo DiCaprio. Bastano questi tre nomi ad accendere la fantasia di ogni cinefilo. È arrivato il momento di vedere, in sala, il colossale (3 ore e 26 minuti) film di Martin Scorsese, Killers Of The Flower Moon, prodotto da Apple, scritto da Scorsese insieme ad Eric Roth e presentato fuori concorso al recente Festival di Cannes. Lo vedremo, finalmente, al cinema dal 19 ottobre 2023 con 01 Distribution. E, prossimamente, su AppleTv+.
I protagonisti del film sono i due che si sono passati il testimone di attore feticcio di Scorsese, Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. In Killers Of The Flower Moon sono zio e nipote: De Niro è William H. Kale, per tutti King, coltivatore di bestiame in una zona che appartiene al popolo nativo degli Osage, in cui è stato trovato il petrolio. Kale è il leader del gruppo di uomini bianchi che ha fatto razzia di ogni cosa appartenesse ai nativi del luogo. DiCaprio è Ernest Burkhart, tornato a casa dalla Prima Guerra Mondiale senza alcuna prospettiva e accolto dallo zio. Gli propone di fare l’autista. Poi di sposare una delle donne del luogo per avere l’eredità di quelle preziose terre. Alla fine si trasformerà in un killer.
Sì, sono questo i protagonisti del film di Scorsese. Killers, assassini. Anche se, come vedremo, assassini molto particolari. The Flower Moon è il nome che gli Osage davano alla loro terra, quando si riempiva di fiori, una luna fiorita. Il film di Martin Scorsese ci racconta una storia finora, almeno a noi, poco nota. Che dei massacri dei “bianchi” americani ai danni degli “indiani”, così venivano chiamati una volta i nativi, abbiamo letto e visto tanto: ma ci vengono in mente le grandi battaglie dell’esercito, dei cowboy, nell’Ottocento, pistole e fucili contro archi e frecce. Qui, in questa storia, siamo già nei “civili” anni Venti, un’epoca in cui gli scontri e i massacri sono già lontani. E infatti, gli uomini bianchi di Scorsese uccidono in modo più subdolo. Avvelenando, con il cibo, con le medicine. E negando tutto.
La storia di Killers Of The Flower Moon arriva da un famoso libro di David Grann del 2017, Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI (pubblicato in Italia con il titolo Gli assassini della terra rossa). Al centro del libro di Grann c’è la Nazione Osage, la tribù di nativi americani costretta a spostarsi verso ovest dall’Ohio e dalle valli del Mississippi, attraverso il Missouri e il Kansas, per giungere infine, per ordine del governo americano, nel cosiddetto “territorio indiano” dell’Oklahoma, dove rimase fino alla fine del 1800. Quando, nel 1894, furono scoperti giacimenti petroliferi nella terra degli Osage, la tribù divenne ricchissima. Il territorio fu invaso da speculatori assetati di ricchezza. Iniziò un periodo di grande sfruttamento e non solo da parte dei criminali che si riversarono nelle cittadine in rapida espansione.
Per raccontare questa storia, Martin Scorsese riesce a fondere il film western e il gangster movie. È il suo primo western, come ha dichiarato. Ma è un western sui generis, come detto senza le praterie, le cavalcate e le sparatorie. È ambientato in una terra più evoluta, dove ci sono le città e le automobili. Ma dove la barbarie è comunque presente. È anche un gangster movie sui generis: qualcuno ci potrà vedere echi di Boardwalk Empire, la serie da lui prodotta. Ma è un film dove le “gangs” dei film di Scorsese non sono così apparentemente ed efferatamente violente: operano in modo più subdolo, raggirando, ingannando, fingendo.
Tra questi c’è l’Ernest di Leonardo DiCaprio, che ci regala l’ennesimo personaggio controverso di quella sua meravigliosa carriera iniziata dopo Titanic. Mario Sesti, in occasione della presentazione del film a Cannes, aveva scritto, giustamente, che DiCaprio era stato “salvato dalla sua bellezza, grazie al tempo che ha fatto il suo lavoro”. Per fortuna. Il lavoro lo ha fatto il tempo, e qui anche un trucco che gli ha donato un naso adunco e denti sporchi. Ma anche la sua ostinata ricerca, l’evitare ruoli da bello, da eroe. E la scelta di puntare su ruoli di uomini scissi in due. Ernest è l’ennesimo grande ruolo di DiCaprio, stavolta ancora diverso dagli altri. È un “idiota”, un “uomo senza qualità”, un essere poco sveglio che non sa fare niente. DiCaprio lo interpreta portando in scena un uomo dallo sguardo spento, dal grugno perennemente serrato, con quella bocca con gli angoli rivolti verso il basso. Accanto a lui Robert De Niro è il vero Signore del Male, un mellifluo, falso leader che predica una cosa e ne realizza un’altra.
Martin Scorsese racconta questa storia con un romanzo a tinte oscure, tetre, ben sottolineate dalla fotografia di Rodrigo Prieto. In alcune scene d’insieme, come quelle della città, si sente la frenesia di alcune sue opere, in altre la forza pulsante del rock di Robbie Robertson, la cui madre era nativa americana. Il film, forse, avrebbe avuto bisogno di un minutaggio più ridotto, di una certa concisione nella storia. Ma, in ogni caso, riesce a cogliere nel segno. Martin Scorse, a ottant’anni regista ancora vitale e giovanissimo, regala poi alcune perle di regia. Le sequenze di apertura che, come i film muti dell’epoca, raccontano la storia con le riprese in bianco e nero alternate alle didascalie. E poi quel sottofinale in cui, al posto delle scritte in sovraimpressione che spiegano come è andata la storia, tutto è raccontato in un radiodramma, con tanto di effetti sonori creati ad hoc, l’antenato dei moderni podcast. È anche da questi tocchi di classe che si riconosce un film di Scorsese.
di Maurizio Ermisino
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