E se, nel bel mezzo di una serata danzante tra amiche, Barbie diventasse di colpo “Barbie irrefrenabili pensieri di morte”? Capita anche questo nel sorprendente film Barbie, diretto da Greta Gerwig con Margot Robbie come protagonista, in uscita al cinema il 20 luglio. La nostra Barbie, alta, bionda, con gli occhi azzurri, ha avuto un’altra giornata perfetta nella sua vie en rose. Eppure le vengono dei pensieri strani. E il giorno dopo ogni cosa, nella sua casa dei sogni di Barbieland, sembra non funzionare. C’è qualcuno, che gioca con lei nel mondo reale, a cui sta accadendo qualcosa di strano. E così, insieme al fidato (o no?) Ken, sarà costretta a venire nel nostro mondo per scoprire che cosa sta accadendo. La nostra Barbie scoprirà molte cose che non immaginava, e lo stesso farà Ken. Barbie, oltre che una grande operazione di Branded Entertainment, è un inaspettato film giocattolo, colorato e spassoso, ma con dentro la sorpresa: ci parla di genere, di patriarcato, di empowement femminile e di inclusività. In modo forse troppo schematico e didascalico, ma anche con un’ironia rara in un blockbuster.
Barbie appare nel nostro mondo – con il suo primo costume da bagno, a righe orizzontali bianche e nere – enorme e solitaria in un pianeta deserto, come il monolite di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, con la musica di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. Da quel momento, nulla sarebbe stato come prima. Le bambine, che prima giocavano con i bambolotti, quelli a forma di bebè, e quindi erano destinate a giocare ad essere madri, ora non dovevano più farlo. Barbie, che aveva le sembianze di una donna adulta, poteva essere qualsiasi donna. E così quelle bambine potevano diventare quello che volevano. È questo che vuole dirci il nuovo film Barbie: quella bambola, per anni additata come modello di bellezza stereotipato, univoco, irraggiungibile, in realtà voleva essere il contrario. Voleva dire alle bambine che sarebbero potute diventare dottoresse, scienziate, giornaliste, presidentesse. In un altro momento del film, una bambina cresciuta e diventata adolescente se la prende con Barbie, arrivata nel mondo reale, proprio per questo motivo. “Fai sentire le donne sbagliate. Hai fatto arretrare il mondo di 50 anni”. “Il mio compito è renderti felice, consapevole” risponde lei.
Barbie è questo, è un riposizionamento: non commerciale, ma valoriale. È un voler trovare a Barbie un posto nel mondo di oggi. Quello dell’inclusività, dell’accettazione delle diversità, dell’empowement femminile. È una sorta di autocritica per quello che, forse senza volerlo, negli anni la Mattel e il marchio Barbie hanno comunicato. È il loro bisogno di dire “forse abbiamo sbagliato, volevamo dire un’altra cosa. E, se non l’abbiamo detta prima, la diciamo adesso”. “Non c’è nessuna donna al comando?”, dice una Barbie incredula una volta arrivata nel mondo reale e arrivata al cospetto del consiglio di amministrazione della Mattel. Il cui CEO, un Will Ferrell mellifluo e ingannevole, risponde in modo evasivo: non sa spiegarle il perché, ma le cose stanno così. Barbie, quando arriva nel mondo reale, scopre che è tutto il contrario di Barbieland: i maschi usano i doppi sensi, la guardano in modo malizioso, e dominano un mondo in cui per le donne non c’è il posto che credeva ci fosse.
A Barbieland, dove tutti i personaggi femminili si chiamano Barbie, la protagonista, Margot Robbie, si chiama proprio “Barbie Stereotipo”. Che è un modo molto ironico per dire che, sì, in effetti, in questi anni Barbie ha portato avanti un modello stereotipato e irraggiungibile di bellezza. Ma in Barbieland ci sono in realtà Barbie molto diverse tra loro: diverse etnie, diverse caratteristiche fisiche. Ci sono donne che possono raggiungere qualsiasi professione e qualsiasi livello di carriera. Barbie, allora, è un passo avanti del marchio verso l’accettazione della diversità, verso l’inclusività, una dichiarazione d’intenti contro il body shaming.
Ci sono insomma tanti contenuti, tanti messaggi in quello che sembra un film giocattolo. E lo è, oltre ovviamente ad essere molto altro. Lo è nel senso che dichiara subito la natura di giocattolo di Barbie, il suo vivere in un mondo che è quello dei giochi, e il suo essere destinata ad essere “giocata” da qualcuno. È quello che avveniva in Lego Movie, ma la sua natura era svelata solo alla fine del primo film. Non è quello che avviene, per fare un esempio opposto, nei film dei Transformers, dove i robot sono calati in quello che si presume il mondo reale. Dichiarare subito la natura di Barbie permette una serie di gag molto divertenti, come il fatto di uscire di casa senza scendere le scale, o bere e mangiare senza che ci sia niente nei recipienti. Ma, osando ancora di più, il film non cerca di evitare tutte le contraddizioni del mondo di Barbie, inevitabili in quello che è un gioco per bambine, ma le enfatizza e ci costruisce gag e divertimento. Quel “noi non abbiamo genitali” che dice Barbie a un gruppo di uomini nel mondo reale fa il paio con il fatto che lei e Ken non facciano sesso, e, in fondo, forse non stiano neanche insieme. “Puoi andare” dice lei a Ken dopo una serata insieme. “Forse potrei restare stanotte” ribatte lui. “Per fare che?” “Non lo so…”: Greta Gerwig e Noah Baumbach, sceneggiatori sopraffini, sfruttano insomma ogni occasione possibile per prendersi in giro, prendono il comando di un blockbuster per distruggerlo dall’interno.
Già, Ken. C’è anche lui nel mondo di Barbie. Ma, mentre Barbie può essere qualsiasi cosa, lui può essere solo Ken. Già Toy Story 3, se ricordate, aveva definito chi era. Un personaggio maschile, ma, in fondo, un giocattolo per bambine, e, come tale, costruito a misura di bambina. Una Barbie al femminile, vanesio e un po’ infido. E comunque un personaggio che vive nella vita di Barbie. Come lo è il Ken di Ryan Gosling, capelli biondo platino e addominali in bella vista. “È sempre Barbie & Ken”, dice lui. E se, arrivati nel mondo reale, Barbie scopre il patriarcato con sgomento, Ken lo scopre con piacere. Certo, per lui è fatto di cavalli, hard rock, Sylvester Stallone e Ronald Reagan. Ma, tornato a Barbieland, prova a riproporlo. Con esiti esilaranti. Ma anche con un po’ di amaro in bocca per noi. Perché se il nostro mondo di oggi, con le sue storture, irrompe anche in un mondo che non era così, certe cose le noti ancora di più.
Barbie è una caramella rosa, un marshmallow che ha dentro però un cuore più amaro, più velenoso. È un film satirico, pieno di citazioni e di spunti, che alla fine fa bene il suo lavoro. Solo che ci sembra troppo programmatico, troppo didascalico. È un film più di testa che di cuore, in cui c’è più logica che passione, più costruzione che empatia. È uno di quei film dove i concetti vengono spiegati per filo e per segno, esplicitamente, più che suggeriti e fatti arrivare in modo indiretto al pubblico. E questo fa sì che, al di là del divertimento, anche cinefilo, e del significato, sacrosanto, il film lasci un po’ freddi e non conquisti fino in fondo come potrebbe.
Resta anche da capire il target di questo film. Che non è un film per le bambine che con le Barbie ci giocano. I riferimenti sono troppo complessi, e anche il gioco sulla sessualità non è adatto. È più un film per ragazze cresciute che le Barbie le hanno amate, e tanto, come il personaggio di America Ferrera, designer e mamma di un’adolescente che con le Barbie non ci gioca più (l’abbandono, altro tema caro a Toy Story). E per teenager, che non giocano con le bambole ma sono affascinate da quel mondo rosa e glamour che hanno vissuto e che in qualche modo vogliono continuare a vivere. Anche se, come vediamo nel film, non tutte sono d’accordo.
Sono questi i dubbi che ci vengono a proposito di quello che comunque è uno spettacolo orchestrato alla grande, con numeri da musical, costumi e scenografie perfette. Quello di Barbie è un mondo dichiaratamente fittizio, dove tutto è chiaramente di plastica (ricordate quella canzone? Life in plastic is fantastic): le case, le macchine, anche la sabbia e le onde. A un certo punto del film sentiamo la protagonista dire in lacrime “io non sono abbastanza bella per essere Barbie Stereotipo”, in un momento in cui si sente giù. E un’autoironica voce fuori campo ci dice: “Nota per i filmmaker: Margot Robbie non è la protagonista giusta per trasmettere questo messaggio”. Ironia a parte, è proprio così: l’attrice è fisicamente Barbie, lo è sempre stata, ma dentro è sempre stata molte altre cose: quegli occhi azzurri, “da stereotipo”, diventano velati di malinconia, quella bocca sorridente comincia ad avere gli angoli rivolti verso il basso. Così gli occhi dolci del Ken di Ryan Gosling riescono a diventare sinistri, e poi di nuovo dolci, e un po’ abbacchiati. I due attori, sopra le righe come è giusto che siano due personaggi giocattolo, fanno centro. E il film li porta verso un finale che la creatrice di Barbie in realtà non aveva mai scritto per lei. E che Barbie, come ogni donna oggi è giusto che faccia, vuole scriversi da sola.
di Maurizio Ermisino
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