“Non è l’avventura, Sal. Questi sono giorni passati”. In questa battuta, pronunciata dal professor Henry Walton Jones jr., per tutti Indiana Jones, ancora una volta con il volto di Harrison Ford, c’è un po’ tutto il senso di Indiana Jones e il Quadrante del Destino, dal 28 giugno al cinema. Il quinto film della saga di Indiana Jones, iniziata più di 40 anni fa grazie al genio di George Lucas e Steven Spielberg, è il primo non diretto da Spielberg in persona, ma è affidato al “mestiere” di James Mangold. Ed è un film che non fa mistero della senilità del protagonista, di una certa stanchezza, della voglia di chiudere con l’avventura. Un eroe stanco a fiaccato, un film che va a mille all’ora come i blockbuster di oggi: Indiana Jones e il Quadrante del Destino è un ossimoro, è una contraddizione. È un clone dei vecchi film di Indiana Jones, ma ci permette di vedere per l’ultima volta un vecchio amico. E tanto basta.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino inizia tanto tempo fa. Siamo nel 1944, in Europa, durante gli ultimi giorni del Terzo Reich. Adolf Hitler sta per cadere, e i nazisti si aggrappano a quello che possono. Come l’enorme tesoro che hanno trafugato in tutti i luoghi dove sono stati. Tra questi c’è la famosa Lancia di Longino, la lancia con cui pare fu trafitto Gesù Cristo, e che porta sulla sua punta tracce del suo sangue, e assicura, si dice, grandi poteri. In scena c’è un Indiana Jones che – come ne I predatori dell’arca perduta e Indiana Jones e l’ultima crociata, lotta contro i nazisti, ringiovanito (molto bene) grazie al computer. Da un’altra parte, in una borsa, intanto, entrano in scena il cappello e la frusta, i simboli del suo personaggio, secondo le regole dei sequel celebrativi (ricordate Top Gun: Maverick?). Avremmo detto dei requel, o legacy sequel: ma questo quinto Indiana Jones non lo è, perché, anche se ci sono personaggi nuovi, non è un film che punta a passare un testimone, quanto a chiudere un cerchio. Il nuovo personaggio è quello di Helena (Phoebe Waller-Bridge), figlia di un vecchio collega di Indy, che cerca la metà mancante della Macchina di Anticitera (o di Antykithera, come dicono nel film): un’invenzione di Archimede che pare consentisse di viaggiare nel tempo.
E un primo salto nel tempo lo fa il film, dopo quel (lunghissimo) prologo ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Siamo nel 1969, si ascoltano i Beatles di The Magical Mystery Tour e il David Bowie di Space Oddity. È il giorno dell’allunaggio, un’altra conquista dell’umanità. Anche se il nostro Indy è scettico. “Andare sulla Luna è come andare a Reno: in mezzo al nulla, ma senza il black jack”. Indiana Jones, dopo una lezione all’università, dove parla proprio di Archimede e dell’Assedio di Siracusa, 200 anni prima di Cristo, arriva in dipartimento, dove è arrivato il momento di andare in pensione. E dove lo segue Helena, che aveva conosciuto da bambina, e oggi gli propone un’ultima impresa.
Da qui, dopo la sequenza iniziale, parte un’altra sequenza d’azione, culminata da una corsa a cavallo fin sotto i tunnel della metropolitana. Come la prima sequenza è spettacolare, certo. Ma sembra che tutto il film sia come certi film di James Bond, o meglio, come qualsiasi altro blockbuster di oggi (perché ultimamente anche Bond ha cambiato un po’ strategia): una sequenza di scene d’azione una dietro l’altra. Una sorta di gioco dell’oca in cui si passa da una casella all’altra, da un inseguimento all’altro. Spettacolare, ma anche un po’ stancante. Manca però, per gran parte del film, quel senso di avventura, di ignoto, di magia dei vecchi film di Indy. È anche vero che sono cambiati i tempi. Quarant’anni fa non si conosceva così tanto il mondo (ed eravamo bambini) da poter credere che ci fossero civiltà con costumi raccapriccianti e bizzarri come quelle di Indiana Jones e il tempio maledetto. Ma è anche vero che in quei film c’era un continuo senso di stupore, di incanto, che qui non arriva quasi mai.
Perché arrivi dobbiamo entrare in una grotta, in Sicilia, e aspettare che arrivi sui protagonisti una pioggia di insetti, e poi una piscina che nasconda qualche meccanismo segreto in grado di sbloccare qualcosa. È quel senso dei vecchi film di Indiana Jones che, seppur in ritardo e a tratti, arriva. Così come arriva l’ironia, anche se in questo film è a corrente alternata. A non convincere, inoltre, è il sottofinale, con alcune scelte che non sono proprie del personaggio di Indiana Jones, e anche una svolta verso il “fantastico” (o addirittura la fantascienza) che non sono proprie della saga. Il finale, inteso come ultima scena, invece, è una citazione che vi farà bene al cuore.
Lo scarto che c’è tra questo quinto film e i primi tre di Indiana Jones è in fondo lo scarto tra il cinema di quegli anni e questo: parliamo di arte e artigianato, anche quando era fatto in formato kolossal, contro una riproduzione in serie di modelli di successo, spesso di un passato fortunato. È sempre più difficile creare icone e immaginari, è sempre più conveniente riproporli. A volte va bene (Top Gun: Maverick ne è un esempio); a volte, appunto, si finisce chiaramente per fare una copia.
Al centro di tutto, però, c’è un Harrison Ford che, già nei primi anni Ottanta, aveva fatto almeno tre volte la storia del cinema (Star Wars, Indiana Jones e Blade Runner, per non parlare di American Graffiti) e icona lo è diventato più volte. Difficile chiedergli di più. E invece è l’anima, e la cosa migliore del film. I capelli completamente bianchi, l’aria stropicciata e quell’espressione di chi è sempre lì per caso ma che non molla mai la presa. E un fisico tonico che gli permette di essere credibile nel ruolo. James Mangold è un regista che ha mandato in pensione Wolverine degli X-Men e ora lo ha fatto con il professor Jones, e sembra specializzarsi in questo. Non è, neanche lontanamente, Steven Spielberg. Ma, detto questo, pur in un film con molti limiti, aver rivisto il vecchio professor Jones è stato un vero piacere.
di Maurizio Ermisino
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