Che cosa fareste se un giorno, davanti alla tv, vi capitasse di aprire Netflix e di trovare una serie che nel titolo ha il vostro nome e che parla proprio di voi, della vostra vita, anche se nella finzione avete il volto di una star di Hollywood? È lo spunto, inquietante, di Joan Is Awful, il primo dei cinque episodi che compongono la stagione 6 di Black Mirror, la serie cult di Charlie Brooker che da anni ci mette davanti a uno specchio e ci racconta il nostro rapporto con la tecnologia per dirci chi siamo e che cosa siamo diventati oggi. La nuova stagione è disponibile dal 15 giugno su Netflix. In occasione di questa nuova stagione, Netflix riflette su sé stessa: al centro dei primi episodi, infatti, c’è Streamberry, una piattaforma di streaming che è in tutto e per tutto simile a lei, e che può arrivare a fare cose molto preoccupanti. È un modo per ragionare sulla società dei contenuti consumati avidamente on demand, dei contenuti costruiti ad hoc per ogni target. Oggi ogni contenuto è creato ad arte per gruppi precisi di persone. Domani sarà confezionato per ogni singola persona? Tutta la stagione 6 di Black Mirror sembra essere una riflessione sulle immagini e sul loro senso nella nostra vita di oggi, sul nostro rapporto con esse. Dalle immagini in alta definizione a cui assistiamo comodamente in streaming ogni giorno alle immagini di repertorio, in bassa definizione, che possono custodire la memoria, e forse svelare la verità. Dalle immagini fotografiche rubate, quelle che entrano in quella che dovrebbe essere la vita privata delle persone, ma che la loro fama rende pubblica, fino alle prime immagini che, dalla notte dei tempi, venivano usate per riprodurre la realtà, cioè i dipinti. Ma anche all’immagine che, da sempre, rappresenta la nostra identità, cioè il nostro volto: e se, per una volta, non la rappresentasse? Black Mirror ci racconta tutto questo attraverso 5 episodi, ognuno di genere diverso: la satira, il thriller, la fantascienza distopica, l’horror sovrannaturale e l’horror classico. Generi diversi, stesso messaggio. Da non perdere.
Joan Is Awful: attenzione a termini e condizioni…
Che cosa vuol dire sentirsi la protagonista della propria vita? A Joan (Annie Murphy, bravissima) capita letteralmente. Joan lavora in una grande compagnia hi-tech, dove è la persona che deve comunicare a chi viene licenziato la brutta notizia. Ha una storia finita che non si è lasciata del tutto alle spalle, Mac, e una storia in corso, con Krish. Un giorno, guardando con lui la tv su una piattaforma, che si chiama Streamberry ma è del tutto uguale a Netflix, trova una serie che si chiama Joan Is Awful, Joan è terribile. La protagonista, interpretata da Salma Hayek, ha gli stessi capelli. E sembra vivere in tutto e per tutto la sua vita. Già è imbarazzante per sé vedersi rappresentata sullo schermo. Ma il vero problema è che tutti hanno Streamberry, e tutti vedono ogni cosa fa Joan. È come essere in un acquario, in un Truman Show. Ma come è possibile? Lo scoprirete. Ma fate attenzione ai termini e condizioni che accettate ogni volta che vi iscrivete ad una app… Joan Is Awful è un racconto inquietante, e attualissimo, che diventa un vorticoso gioco di scatole cinesi in cui la percezione naufraga e non sappiamo più cosa è reale e cosa no. E in cui Netflix fa ironia su sé stessa. “Hanno preso 100 anni di cinema e li hanno ridotti a una misera app”.
Loch Henry: rinvangare un passato torbido
Anche qui al centro della storia c’è la serialità televisiva, la piattaforma Streamberry, e un produttore di documentari, Historik. Tutto nasce dalla storia di un ragazzo, che da Londra torna nel paesino dove è nato con la sua nuova compagna, per girare un documentario lì vicino. Un amico racconta loro la storia di Iain Adair, un folle che sequestrava le persone e le torturava. La ragazza crede che il loro film dovrebbe parlare di questo, e che debba essere qualcosa che possa essere visto da tante persone. Ma è giusto rinvangare un passato torbido? È giusto riportare alla luce qualcosa che fa così male? Quando è il caso di fermarsi? Oggi che tutti vedono le immagini ad alta definizione, che senso hanno le immagini delle vecchie vhs? Sono sgranate, ma sono la memoria storica; sono imperfette, ma sono legate chiaramente a un’epoca. La riflessione sul mezzo e sui linguaggi è la base di partenza di quello che diventa un thriller, un horror “found footage”, una di quelle storie dove il Male si annida proprio dove non si crede. E poi svolta di nuovo verso una satira tagliente e beffarda sul limite che deve porsi chi racconta le storie. Nel cast c’è John Hannah, l’attore di Sliding Doors e La mummia.
Beyond The Sea: siamo uomini o replicanti?
Siamo in un 1969 alternativo e due astronauti, dalle vite idilliache, sono impegnati in una missione nello spazio. A casa ci sono le loro mogli, i loro figli e… Beyond The Sea è un racconto dal respiro più ampio, più lento e compassato, dove le sorprese sono dietro a ogni angolo. È una riflessione sull’essere umano e la possibilità di replicarlo, che va dritta alla fantascienza distopica di Philip K. Dick e del Blade Runner di Ridley Scott e continuata in decine di libri e film. Che cosa accrebbe se avessimo una replica di noi stessi (un link, così lo chiamano) che ci permetta di essere da un’altra parte, con chi conosciamo, con la nostra mente e un corpo simile al nostro? E se, a un certo punto, potessimo invece “indossare” il corpo di un’altra persona? Beyond The Sea è un vero e proprio film (80 minuti) con il ritmo di un lungometraggio. È fatto di sorprese, e di alcuni esiti prevedibili, e ha un cast di gran classe. Il protagonista è Josh Hartnett, che 25 anni fa era un divo in pectore di Hollywood, e che oggi, invecchiato benissimo, è ancora affascinante e sempre più espressivo. E poi ci sono la Kate Mara di House Of Cards e l’Aaron Paul di Breaking Bad e di Westworld.
Mazey Day: agire o scattare?
È un viaggio indietro nel tempo anche quello di Mazey Day, ma non così tanto. Torniamo a 17 anni fa, ai tempi della relazione tra Tom Cruise e Katie Holmes, e della nascita della figlia Suri. È la radio, in sottofondo, a raccontarcelo, e ci immerge immediatamente in un’epoca. Sono gli anni in cui l’iPod è l’oggetto di culto. Una fotografa (Zazie Beetz) scatta una foto compromettente a un attore che cambia la sua vita e anche quella della sua compagna. La cosa ha dei risvolti anche sulla fotografa che ha scattato la foto, e ora si vede assegnare l’incarico di “paparazzare” un’attrice, Mazey Day, che sta affrontando una fase di riabilitazione. Anche questo episodio è una riflessione sulle immagini – in questo caso le fotografie – e sulla loro capacità di rendere la realtà, e di influire sulla vita delle persone. In un episodio che, a sorpresa, svolta verso l’horror soprannaturale, la riflessione è comunque importante: nel momento del pericolo, che si tratti di aiutare qualcuno o di scappare, il dilemma è: agire o riprendere/scattare? La risposta, nella società dell’immagine, è scontata.
Demon 79: che horror l’Inghilterra degli anni Settanta
Demon 79, quinto e ultimo episodio di Black Mirror 6, è un altro viaggio nel passato: dai caratteri dei titoli di testa, alle immagini di quel colore tenue, tra il grigio e il marrone, con quelle imperfezioni tipiche della pellicola, veniamo trasportati in un horror degli anni Settanta. Al centro della storia c’è una ragazza di origine asiatica che lavora in un grande magazzino di abbigliamento. Siamo alla viglia delle elezioni che consacreranno Margaret Thatcher come nuova premier, e un nuovo leader conservatore sta per salire al potere. La comparsa di un demone offre a quella ragazza l’occasione di uccidere… L’horror classico è la forma di un racconto che diventa metafora politica, e che ci vuole dire come la salita al potere dei conservatori in Gran Bretagna sia stata un orrore. Forse ci vogliono dire che lo è anche oggi, con la Brexit e tutto il resto? Demon 79 è un classico horror anni Settanta, ma gioca sul genere con ironia, con un demone che ha l’aspetto di una disco star anni Settanta e la musica di Boney M, Abba, Madness e Boomtown Rats.
Cosa guarderemo in futuro?
Stiamo guardando Black Mirror comodamente in streaming, ma non siamo così tranquilli, perché ci interroghiamo su quale sarà il futuro delle nostre visioni. E ci immaginiamo contenuti unici e fatti su misura per ognuno degli iscritti alla piattaforma, opere visive che si generano automaticamente grazie ai computer quantistici e ai dati e i consensi che concediamo. Ci aspettano infiniti contenuti generati artificialmente, con buona pace della creatività, di sceneggiatori e attori. In quel primo episodio, Joan Is Awful, metanarrativo, Netflix riflette su sé stessa, sullo stato dell’arte, su come la tecnologia possa cambiare la creatività. Anche Loch Henry è una riflessione sul lavoro creativo di chi fa film e serie, e su quello che la gente vuole vedere, sul fare prodotti per una nicchia ristretta o per un pubblico sempre più ampio, i famosi 190 paesi. A proposito di metanarrazione, attenzione al riferimento a San Junipero.
Le novelle e la loro epifania
Black Mirror è una serie affascinante non solo per i temi che affronta e per il tono, che è sempre inquietante come quello di un thriller ma tagliente e beffardo come quello di una pagina satirica. È affascinante anche per la sua struttura narrativa, che è quella letteraria di una raccolta di novelle. Come tali vivono sempre di un’epifania, uno svelamento che dà il senso a tutto il racconto breve. Così si assiste a ogni episodio di Black Mirror in attesa di questa epifania. In questi anni abbiamo sempre visto Black Mirror come una serie che ha ridefinito gli standard della serialità, come punto di riferimento per la qualità della narrazione e anche per la maturità della riflessione sul futuro. “Sembra un episodio di Black Mirror” abbiamo sempre detto, come se fosse un complimento. Ecco, gli episodi di Black Mirror sono qui, finalmente. E sono da non perdere.
di Maurizio Ermisino
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