Lo chiamavano Hair Metal, ed era una corrente in voga nella seconda metà degli anni Ottanta in America. Era contraddistinta da una serie di band hard rock dal look molto appariscente e dai capelli ariosi e cotonati. Parliamo dei Poison, dei Motley Crue. E, secondo alcuni, dei Guns’n’Roses, anche se la band di Axl e Slash è stata in realtà qualcos’altro, molto di più. Proprio i Guns’n’Roses sono la colonna portante del nuovo Thor: Love And Thunder, il nuovo film dedicato al Dio del Tuono, al cinema dal 6 luglio, diretto ancora una volta da quel Taika Waititi che con il precedente Thor: Ragnarok aveva dato vita a un completo rebranding del supereroe, rendendolo una simpatica canaglia, e cominciando a prenderlo – lui e tutto il suo mondo – davvero poco sul serio. Se ci pensiamo, Thor in fondo è sempre stato Hair Metal. Per il suo look, quei lunghi capelli biondi svolazzanti. E per i suoi poteri: il tuono, quel martello che, in fondo, è metallo pesante. Così questa nuova rilettura di Waikiki, che guarda agli anni Ottanta ma in un modo nuovo, in fondo ci sta.
Lo capiamo subito, dopo una lunga serie di preamboli, quando Thor entra in scena, cioè in battaglia, in un pianeta lontano, accanto ai Guardiani della Galassia. Si toglie un’anonima tunica, e indossa un chiodo di pelle senza maniche, t-shirt, pantaloni attillati e stivali. Accanto a lui ci sono i tuoni, e soprattutto i fulmini al neon blu che sembrano gli effetti speciali di un concerto rock. “Tutto finirà qui, adesso” è il suo grido di battaglia, il suo “al mio via scatenate l’inferno”. E la sua discesa in battaglia avviene sulle note di Welcome To The Jungle dei Guns’n’Roses. Ma, oltre alla musica dei Guns’n’Roses, vera e propria anima oltre che colonna sonora del film, è il tono dell’Hair Metal che pervade tutto Thor: Love And Thunder. Quel tono dissacrante, beffardo che avevano quelle band è quello che troviamo nella nuova, ulteriore rilettura del supereroe. Com, e più di Thor. Ragnarok, il nuovo Thor di Taika Waititi è appunto dissacrante, farsesco, grottesco. È un Thor che, per primo, non si prende sul serio, mentre declama con tono pomposo e aulico frasi fatte, discorsi motivazionali. È interessante perché introduce nell’eroe la consapevolezza di essere un personaggio, di avere un ruolo, di avere un “pubblico” e di dare a loro quello che si aspetta. Il supereroe come messinscena, come show business, è un modo nuovo di affrontare questo mondo. Non a caso, la New Asgard, il villaggio degli asgardiani sulla Terra, è una sorta di parco a tema con gadget, rappresentazioni teatrali, cibo e drink coordinati al mito di Odino e compagnia.
La storia però porta Thor e gli altri personaggi in una continua doccia scozzese tra dramma e farsa, tra dolore e goliardia, tra il continuo senso di morte che aleggia per tutto il film, e un bisogno di esorcizzarla con battute e trovate sopra le righe. Dopo la sua prima missione con i Guardiani della Galassia, Thor viene chiamato da una sua amica. Un nuovo pericolo si aggira per l’universo: è Gorr (un Christian Bale, al solito, inquietante e ipnotico, che è a sua volta un film nel film), il Macellatore degli Dei. Deluso dal Dio del suo pianeta, è entrato in possesso di una spada che gli ha dato dei grandi poteri ma allo stesso tempo lo ha corrotto, e ha deciso di uccidere tutti gli Dei. Così Thor decide di recarsi nel pianeta dove vivono gli Dei e arrivare da Zeus in persona (un Russell Crowe esilarante che tratteggia un Dio del Fulmine vanaglorioso, ozioso e capriccioso, da antologia) per provare a cercare il suo aiuto e la sua arma principale. Insieme a lui ci sono Valchiria (una Tessa Thompson sempre più espressiva e ironica) e Jane Foster (Natalie Portman). Sì, proprio lei, l’amore della sua vita. Ora è malata e raggiunge Asgard sperando in una cura. Ma trova il martello di Thor e, in simbiosi con lui, diventa a sua volta un’eroina: chiamatela Lady Thor, o la Potente Thor. O, semplicemente, come vuole lei, Jane Foster.
Quel saper passare, con una grande prova di fascino e bravura, da creatura debole a potente, di Natalie Portman, ci spiega bene la continua altalena a cui ci sottopone il film, anche tra colori accesissimi e bianco e nero, nella riuscita sequenza in cui i nostri raggiungono Gorr nel regno dell’ombra. Il nuovo Thor è un continuo susseguirsi di alto e basso, di colore e ombra, di tragedia e commedia. È abbastanza chiaro come questi toni diversi, che durante il film si passano continuamente il testimone, stentino ad amalgamarsi, e che il pubblico venga continuamente spiazzato, tirato per la giacca da una parte o dall’altra, con il risultato di non entrare completamente in una storia che in sé è anche commovente e toccante. A volte un attore enorme come Christian Bale sembra quasi sprecato, mentre Russell Crowe riesce a inserirsi alla perfezione in questo nuovo filone del supereroe. Chi in questi panni si trova benissimo è Chris Hemsworth, attore che ha nelle sue corde l’ironia e la comicità, e che porta in scena un personaggio ispirato al Kurt Russell di Grosso guaio a Chinatown e all’Han Solo di Star Wars. Per capire da che parti siamo, a tratti sembra di trovarsi dentro Flash Gordon, la space opera sfarzosa e kitsch degli anni Ottanta prodotta da Dino De Laurentiis.
E poi ci sono loro, i Guns’n’Roses. Li sentiamo più volte. Se Welcome To The Jungle è il grido di battaglia, Paradise City è, giustamente, la canzone che porta Jane Foster ad Asgard. E Sweet Child O’Mine, con il suo glorioso giro di chitarra di Slash, è la colonna sonora di una delle scene più spettacolari del film, che non vogliamo raccontarvi, prima di tornare, come vero e proprio tema del film, anche sui titoli di coda. E c’è spazio anche per l’arrembante finale di November Rain, con la chitarra di Slash ancora protagonista. In questo film queste canzoni ci stanno benissimo. Perché quel rock di fine anni Ottanta era una musica epica, era una musica eroica.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
Questo slideshow richiede JavaScript.