“Cosa pensi del futuro?” “Come lo immagini?” “Cosa ti fa paura?” “Cosa ti fa arrabbiare?” “Cosa abbiamo fatto noi adulti per mettervi sulla strada giusta?” Johnny, il protagonista di C’Mon C’Mon, il film di Mike Mills presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita al cinema dal 7 aprile, fa queste domande ai bambini per il suo programma radiofonico. Come sta cambiando il mondo per loro? Cosa li ispira? Cosa li eccita? Mentre si trova a chiedersi come vedono il futuro i bambini, si trova a contatto con un bambino speciale, il nipote. E, conoscendolo, impara a conoscere se stesso. C’Mon C’Mon, girato in un bianco e nero scintillante, e con l’effetto più speciale di tutti, un Joaquin Phoenix misuratissimo, è forse il film più bello dell’anno. Non perdetelo. Ovviamente al cinema.
Johnny (Joaquin Phoenix) fa un lavoro bellissimo. Gira gli Stati Uniti muniti di microfono, cuffie e registratore per parlare con i ragazzi, per intervistarli sulla loro vita e chiedere loro come si immaginano il futuro. “Quando pensi al futuro, come te lo immagini?”. Jesse (Woody Norman) è il nipote di Johnny, il figlio di sua sorella, ed è un ragazzino un po’ strano. Ama la musica classica e si diverte a fare un gioco in cui finge di essere un orfano. Così fa domande agli adulti, alla mamma e allo zio, come se fossero estranei e lui venisse a stare per un po’ nella camera dei loro figli. Johnny propone alla sorella di portare un po’ con sé il ragazzino, mentre lei si dovrà occupare dell’ex marito, il padre del ragazzo, che ha dei problemi di salute mentale.
Quel microfono permette a chi intervista Johnny di costruire un’immagine di sé. Ma quel microfono della radio diventerà qualcos’altro. Uno strumento per se stesso, e per il suo rapporto con il ragazzino. Dal fare le domande Johnny si troverà per una volta a dover rispondere. E, alla fine, a scavare dentro se stesso, a confessare qualcosa di sé che magari non ha mai ammesso. Johnny è un uomo che non ha avuto figli. E Jesse, in fondo, non avesse un padre. E allora è naturale che i due in qualche modo si trovino, si conoscano, crescano insieme, diventino importanti l’uno per l’altro. “Credo sia stato viziato. Oppure lo sono stato io” confessa Johnny, una sera, da solo, al suo microfono.
Joaquin Phoenix porta nel film un’interpretazione di rara sensibilità e delicatezza. Abbiamo tutti negli occhi l’interpretazione espressionista di Joker. Qui riesce a dare una performance agli antipodi, reale e realistica. Phoenix recita costantemente sottotono, a bassa voce, a mezza bocca. Non indossa nessuna maschera, nessun costume. Porta gli abiti più semplici e anonimi possibile, una camicia bianca e dei pantaloni scuri. Ha i capelli brizzolati, un po’ lunghi, incolti, spettinati, e una barba sale e pepe, ma appena accennata. Ma è il suo sorriso, mentre ascolta quel bimbo parlare, che è dolce. Ed è lontanissimo dal ghigno che gli abbiamo visto fare tante volte. In C’Mon C’Mon è tutto quieto, tutto misurato: ogni suo movimento, ogni sua espressione, ogni sua parola. Ma guardate anche il piccolo Woody Norman, un ragazzino che, per quasi tutto il film, è in scena accanto a un “mostro” di bravura come Phoenix, e recita assolutamente alla sua altezza.
C’Mon C’Mon è un film a suo modo miracoloso. E una storia su un bambino che deve stare lontano dai genitori, con il padre malato, è un film dove si parla di solitudine, di morte. Eppure il film non è mai lacrimevole, non è mai commovente a comando, mai ricattatorio. È un film che invece scorre leggero, divertente, e allo stesso tempo intenso, denso di spunti, di domande, di risposte. È un film asciutto, ottimista, sereno. Guardarlo fa bene al cuore.
C’Mon C’Mon è girato in un bianco e nero poco contrastato, luminoso, brillante. Fa venire in mente immediatamente Manhattan di Woody Allen e non solo perché, in una scena a New York, Mike Mills riprende proprio il ponte di Brooklyn. Il suo è un bianco e nervo versatile, che cambia forma a seconda della luce che lo raggiunge. A Los Angeles è inondato di bianco, con il sole della California e il suo riverbero sulle onde del mare che lo rendono quasi accecante. A New York raccoglie meno luce, sia durante le giornate nuvolose, sia durante la notte, dove il buio è punteggiato dai piccoli bagliori delle proverbiali mille luci. A New Orleans ha una luce ancora diversa, luminosa ma non come quella di Los Angeles, dove i colori della natura e delle persone non li vedi, ma li “senti”, li percepisci, sai che ci sono. Quel bianco e nero sembra quasi voler attenuare una storia dura, che già il tono della sceneggiatura, della regia e della recitazione rendono delicata. Ma sembra che questo bianco e nero renda tutto ancora più ovattato. Sembra che Mills voglia togliere il colore per evitare di distrarci con gli ambienti, le città, gli sfondi, e farci concentrare sulle parole, sulle storie, sul rapporto tra i due. In questo modo ci lascia liberi, e fa sì che i colori ce li possiamo mettere noi, con la nostra immaginazione. Ma quel bianco e nero ha anche un grande potere di astrazione. È capace di prendere qualsiasi sfondo – un parco, le corsie di un supermercato, una fila di palazzi anonimi – e trasformarlo in espressione grafica, in arte. Tutte queste cose fanno di C’Mon C’Mon un film unico, elegante e toccante.
“A un ragazzo della tua età che viene da un altro paese cosa diresti degli Stati Uniti?” “Cosa pensi che succederà dopo la morte?” “Se potessi cambiare qualcosa di te cosa sarebbe?” “Se avessi un superpotere, che superpotere sarebbe?”. Johnny continua con le sue domande. Ma anche il piccolo Jesse, a volte, prende in mano il microfono, e registra. E dimostra di aver capito già tanto dalla vita. “Non succede mai quello che pensi, e accadono cose che non penseresti mai. Perciò devi fare il tifo. Dai, dai!. C’Mon C’Mon”.
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