Massimo (Elio Germano) è un dentista di successo, con uno studio affermato e una grande villa con piscina fuori città, nel nulla. È una di quelle ville che denotano ricchezza, ma anche impersonalità e poco gusto. È una villa forse fuori moda e fuori tempo. Lì dentro vive con la sua famiglia, la moglie e due figlie, tutte bellissime, in stanze con la moquette, il pianoforte e i divani di velluto azzurro. È qui che passa gran parte del tempo, quando non è allo studio, o quando non esce – una volta alla settimana – insieme a un amico, il suo unico amico, per alzare il gomito. A volte fin troppo. Ma quella casa, due piani più uno scantinato, ha due volti. Sopra c’è il paradiso, sotto c’è l’inferno. Ed è nello scantinato che il protagonista fa una scoperta che cambia il corso degli eventi.
Quel colpo di scena i Fratelli D’Innocenzo se lo giocano subito, dopo dieci minuti, e in questo modo muovono subito il film nella direzione del thriller, della storia del mistero. E così America Latina tiene incollati allo schermo con la sua atmosfera sospesa, ansiogena, disturbante. C’è un che di ipnotico in un film che, come detto, vive di dicotomie: esterno e interno, sopra e sotto, pulito e sporco, ideale e sordido, controllo e incontrollabile. America Latina è uno di quei film in cui la casa è un vero e proprio personaggio della storia, nasconde qualcosa, vive di vita propria. Quando, per un momento, vediamo la villa che viene inquadrata da lontano, sfocata, come se fosse ripresa da qualcuno, ci vengono in mente Caché e Strade perdute. È solo una suggestione: il film andrà da un’altra parte. Ma del cinema di Haneke e di David Lynch i Fratelli D’Innocenzo hanno in comune il senso del perturbante, quello che i tedeschi chiamano “unheimlich”, la negazione di ciò che è familiare in un contesto familiare, un elemento di inquietudine che si inserisce in un contesto rassicurante finisce per diventare ancora più disturbante, spiazzante, doloroso.
Quella di America Latina è una casa impersonale, nel nulla. E conferma la passione dei D’Innocenzo per i non luoghi, per le periferie, per quegli ampi spazi vuoti e desolati, che possiamo intendere come una sorta di paesaggi stato d’animo, in grado di rispecchiare enormi, incolmabili vuoti interiori. America Latina è una storia di desolazione, di solitudine, di insicurezze.
Elio Germano è il centro del film, in tutti i sensi. È il protagonista, è l’elemento che catalizza su di sé l’attenzione dall’inizio alla fine. Il cranio rasato e lucido, una barba disegnata e curata a incorniciare il volto, pulito, impassibile, apparentemente inespressivo. Solo quegli occhi diventano all’improvviso liquidi, inquieti, sono acqua e sono fuoco. Il suo Massimo è un uomo che ci appare controllato, inscalfibile, insondabile. Eppure è in affanno, in debito d’ossigeno, in ansia. Ma quando diciamo che Germano è il centro del film è anche a livello visivo. Quel suo cranio rasato è una sfera perfetta, riluce come un sole e come un sole è l’elemento attorno al quale tutto ruota. È come una luna, che ha un lato chiaro e un lato oscuro. E per i D’Innocenzo è un elemento chiave, è il centro attorno al quale costruiscono l’inquadratura, ciò che divide e definisce gli spazi attorno. È un oggetto che spicca, come un monolite nero sugli sfondi rossi della cucina, creando contrasti geometrici e cromatici.
Accanto a Elio Germano, i Fratelli D’Innocenzo sono bravissimi a scegliere gli attori, ma soprattutto a dirigerli. Detto di un grande Massimo Wertmuller che appare in un breve cameo, pochi minuti ma di quelli che non si scordano, spiccano le “tre grazie”, la moglie Alessandra e le figlie Laura e Ilenia, interpretate da Astrid Casali, Carlotta Gamba e Federica Pala. che compongono la famiglia di Massimo. Bionde, candide, angelicate, sono una vera e propria rivelazione del film, e un elemento fondamentale per la sua riuscita. Ma la bravura dei D’Innocenzo non è solo la scelta di questi volti perfetti, ma anche la direzione di attori e attrici. Guardate la scena del compleanno di Massimo, con quella torta di ciliegie che ricorda tanto quella de I segreti di Twin Peaks e guardate come il contegno, il tono della recitazione delle tre donne, cambia, in modo lieve, graduale, ma deciso.
America Latina (il titolo gioca sul fatto che ci troviamo nei dintorni di Latina, ma luoghi e vicende potrebbero essere quelli di una storia americana, drammi di periferie che sono uguali ovunque) è proprio il controcampo di Favolacce. Mentre quel film mostrava una famiglia puntando i riflettori sulla moglie e i figli, qui la luce è tutta sul padre; se lì c’era una comunità ampia e variopinta qui ci sono pochi personaggi soli e isolati. E anche il dipanarsi del finale va in un senso opposto di quello di Favolacce.
Non piacerà a tutti, America Latina, come non piace a tutti il cinema dei D’Innocenzo. Ma è quel cinema non conciliante, non rassicurante di cui c’è bisogno, oggi sempre di più, per capire i mostri che sono in noi, quello che c’è dietro i fatti di cronaca. È un cinema che prova a sondare l’insondabile, che non dà risposte ma cerca di evocare sensazioni, di dare un volto e un’immagine al disagio. È un cinema che ci mette in difficoltà e ci disturba, perché ci sbatte in faccia the dark side of the moon, il lato buio della luna, la metà oscura che c’è in ognuno di noi.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it