La notte degli Oscar è stata l’occasione per vedere, finalmente, l’uomo dietro la maschera. E non è una maschera qualsiasi. È quella di Joker, il personaggio e il film che hanno fatto vincere a Joaquin Phoenix il premio Oscar come miglior attore protagonista. Sul palco, durante la premiazione, e nei momenti immediatamente successivi abbiamo avuto modo, forse per la prima volta, di vedere chi è Joaquin Phoenix. O meglio, chi è diventato l’uomo che, nella sua carriera, di maschere ne ha indossate molte. È stato il perfido imperatore Commodo, è stato Johnny Cash, è stato Gesù, è stato Joker. La scorsa notte degli Oscar è stato semplicemente Joaquin.
Chiamiamolo solo così, per una volta. Lasciamo, per un attimo, quel cognome che lo ha condizionato per molto tempo. Perché l’attore di Joker, terzo di cinque figli, è stato noto a lungo come il fratello di River Phoenix, il fratello maggiore, ed è stato segnato dalla sua tragica scomparsa, nella notte di Halloween del 1993, che finì per allontanarlo da Hollywood per qualche anno. Il ritorno, e il primo film in cui lo ricordiamo, è Da morire (To Die For) di Gus Van Sant, del 1995.
Joaquin, lo abbiamo capito subito, non era River Phoenix, l’attore bello, solare, espansivo (almeno in apparenza, a giudicare da quanto è poi successo). Joaquin aveva una bellezza meno immediata, più sghemba, con quella bocca così particolare, quello sguardo capace di esprimere così bene tanto l’ira o la follia, quanto la fragilità. Joaquin Phoenix, da subito, era quello destinato a diventare l’outsider. O il villain. Il suo Commodo, lo spietato, sprezzante antagonista del Russell Crowe de Il gladiatore è da antologia, e avrebbe potuto ingabbiarlo in un destino da eterno cattivo al cinema. Ma Joaquin Phoenix, in realtà, è molto altro.
Dietro a quelle smorfie che abbiamo imparato a vedere sul suo volto si nascondono soprattutto disagio e vulnerabilità. Così è stata soprattutto questa la cifra delle grandi interpretazioni di Joaquin Phoenix. A partire da Johnny Cash in Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima, eroe della musica americana, ma soprattutto artista fragile, minato da dipendenze, che Phoenix ha portato sullo schermo con un grande lavoro sul corpo, sulla postura e sulle movenze. Per passare al ragazzo depresso e a rischio suicidio del bellissimo Two Lovers di James Gray (regista con cui ha lavorato in quattro film). E a uno dei suoi ruoli più amati, quello del protagonista di Lei (Her), un moderno Cyrano De Bergerac che scrive parole d’amore e di sentimenti per altri, ma non riesce ad amare nella vita reale, tanto da innamorarsi di un sistema operativo. Un film che è fatto da una voce (quella di Scarlett Johansson, in originale) e di un volto, quello di Phoenix, che comunica solitudine, spaesamento, poi innamoramento e dolore. Ed è un uomo spaesato, insicuro, anche il protagonista di The Master, di P.T. Anderson.
L’altro lato della medaglia è quella depressione, quella follia che, se non assistita e curata, sfocia nella violenza. Quello tra il Joker e Joaquin Phoenix è un matrimonio annunciato, che non poteva non portare a un personaggio e un film di grande intensità. Una volta deciso di togliere Joker dal tipico mondo dei film di supereroi e di immergerlo in un altro universo, quello del cinema americano degli anni Settanta, quello dei Taxi Driver e dei Re per una notte di Scorsese, Joaquin Phoenix è stato perfetto nel raccontare un personaggio cresciuto da solo con la madre malata di nervi, senza padre, vittima di abusi; un clown che vorrebbe fare lo stand up comedian, un uomo il cui disagio si manifesta in una risata che gli esce da sola, anche quando non vorrebbe ridere affatto. Joaquin Phoenix, che ha perso 15 chili per il ruolo, si è ispirato a L’uomo che ride, il film del 1928 tratto da Victor Hugo. Quel volto smunto e quello sguardo affebbrato, quello che c’è dietro al trucco da Joker, sono difficili da dimenticare.
Ma il disagio di Joaquin Phoenix si è manifestato più volte, in tutti questi anni, anche nella vita reale, nei rapporti con la stampa, ad esempio. Per anni si è parlato di conferenze stampa con risposte a monosillabi, di interviste saltate. È famoso l’episodio al David Letterman Show del 2009, in cui, con una folta barba e dei grossi occhiali neri a coprire il volto, rispose tra mugugni e borbottii alle domande del celebre conduttore, che chiuse la serata con un “Mi dispiace che tu non sia potuto essere qui stasera”. Nel 2010 spiegò poi, sempre a Letterman, che quel look e quel comportamento (e uno sbandierato ritiro dal mondo del cinema) erano per un mockumentary sulla sua vita, Joaquin Phoenix – Io sono qui! (I’m Still Here).
Domenica sera, sul palco degli Oscar, sembra che Phoenix (fotografato poi insieme alla compagna Rooney Mara mentre mangiava un panino, con l’Oscar poggiato a terra, uno scatto che ha fatto già il giro del mondo) abbia voluto chiudere un cerchio con il passato, scusarsi di certi comportamenti. È per questo che diciamo di aver visto l’uomo dietro la maschera. “Ho fatto un sacco di cose terribili nella mia vita: sono stato egoista, sono stato cattivo e crudele a volte, sono stato un collega difficile con cui lavorare, ma molte persone, anche molte che sono in questa sala, mi hanno dato una seconda opportunità ed è qui che facciamo al meglio il nostro lavoro di esseri umani” ha detto l’attore nel lungo discorso di ringraziamento. “Quando ci sosteniamo gli uni con gli altri, non quando ci diamo contro perché abbiamo fatto degli errori, ma quando cerchiamo di crescere insieme, quando ci guidiamo verso la redenzione assieme. Ed è qui che viene il meglio dell’umanità”. E ha ricordato le parole che il fratello River Phoenix aveva scritto a 17 anni. “Corri verso il rifugio con amore e giungerà anche la pace”. Quella pace, oggi, River Phoenix sembra averla raggiunta.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it